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L’uomo con i pugni di ferro: Recensione in Anteprima

Western e Kung Fu, due delle più grandi passioni di Quentin Tarantino in un film che non è di Quentin Tarantino ma vorrebbe esserlo. Robert Fitzgerald Diggs, in arte RZA, si dà al suo primo film da regista, L’uomo con i pugni di ferro. Risultato?

pubblicato 8 Maggio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 14:55

C’è un merito che va riconosciuto, senza riserve, a L’uomo con i pugni di ferro. Un merito che è più una conferma, l’ennesima, circa l’atipicità e la paradossale originalità del cinema di Tarantino, che copia ma non si lascia mai copiare. Non stiamo qui a fomentare diatribe che da tempo presumibilmente immemore tengono banco tra addetti ai lavori e non, ma progetti come quello partorito da RZA ed Eli Roth finiscono beffardamente con l’avvalorare più la fonte che il prodotto che ne deriva.

Contrariamente a quanto è capace di fare Tarantino, che trae spunto, talvolta in maniera ostentatamente letterale, per raffinare una materia diversamente amorfa, priva di consistenza, in L’uomo con i pugni di ferro assistiamo ad un processo esattamente inverso. Scevro delle tante e tutt’altro che omogenee fonti alle quali attinge l’avulsa prosa tarantiniana, qui si assiste tutt’al più ad un’ostinata ispirazione monocola. Sì, qui ci si vede da un solo occhio, rivolto ad un solo oggetto, che è appunto lo stile del celebrato regista italo-americano.

Non si facciano ingannare, dunque, tutti coloro che avranno letto o anche solo pensato che alla base di L’uomo con i pugni di ferro giaccia una sconfinata sequela di film d’azione spiccatamente orientali. Perché sì, è innegabile che quella sia un’impronta forte, nonché una delle caratteristiche più allettanti dell’opera, ma il cui miscuglio con generi altri appare pretenzioso e scostante. Infilare in una sola portata un protagonista di colore, in un contesto da diciannovesimo secolo cinese e relative lotte tra clan, con un anti-eroe britannico ed un mercenario che è un armadio a muro tratto di peso dal wrestling potrebbe benissimo rappresentare una pietanza oltremodo appetibile per un certo tipo di stomachi. Eppure il polpettone potrebbe risultare pesante anche per costoro.

Il letimotiv tematico è, manco a dirlo, quello della vendetta, duplice, perché alimentata su due fronti. Da un lato c’è quella propiziata dal tradimento all’interno del blasonato clan capeggiato da Gold Lion; dall’altro troviamo quella del povero armaiolo di Jungle Village, novello Django. In mezzo, una lunga serie di scontri più o meno pirotecnici, ma pressoché tutti viziati da un inspiegabile abuso di slow-motion, quasi che l’unico modo per veicolarne la spettacolarità fosse mostrarcele a rallentatore. Ed in fondo è questo (i combattimenti) l’ingrediente su cui viene posta maggiore enfasi, specie in relazione alla contrapposizione tra l’accentuato e letale estetismo orientale ed il ben più spiccio modo occidentale di fare le cose. Ancora una volta, è l’Occidente risolutore a mettere tutto a posto, a farsi portavoce dei più nobili sentimenti; come se l’unico modo per porre fine a quei ciclici e violenti rovesciamenti di potere fosse l’intervento di personaggi avulsi dall’ambiente.

Va letto così il ruolo di Jack Knife (Russell Crowe), deprecabile figura che, a dispetto della sua “scorrettezza“, lavora coi buoni e s’ingrazia la facile simpatia del pubblico. A fungere da contraltare, c’è il bestione Bautista, l’uomo di metallo, una statua di due metri impossibile da spostare (figuriamoci batterlo!). Sono loro due, insieme all’uomo coi pugni di ferro, a trascendere le parti e rappresentare quell’Ovest spesso e volentieri contrapposto all’Est in maniera involontariamente ilare in tante pellicole action a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Senza troppo o per nulla prendersi gioco delle micidiali arti marziali di tutt’altra parte del mondo, siamo comunque “noi” i vincitori, quelli che esportano demokrazia ed importano pernacchie.

A parte il revival di Lucy Liu, il cui ruolo presenta sin troppe analogie con quello da lei stessa interpretato in Kill Bill, si segnalano alcune divertenti uscite del corpulento Crowe, nonché due/tre scene interessanti – come la sarcastica ed irriverente plongée che svela in carrellata più stanze di un bordello, preludio di quella che di lì a poco sarà la battaglia definitiva. Come avrete notato, manca sino a questo punto la citazione dell’anima splatter di questa pellicola, che abbiamo dato per assodata con l’incipit di questa nostra breve analisi. In ogni caso c’è e si vede, perfettamente (o quasi) in linea con i gusti di Tarantino, ossia irreali sciabordii di sangue, tra arti mozzati ed occhi stappati dalle orbite. E se alcuni potrebbero lamentarsi circa l’eccesso di “cattivo gusto”, noi ci lamentiamo invece di un’amalgama che aspira più a scimmiottare che ad intrattenere. Quasi che per dare vita ad un film prodotto da Tarantino, l’unico modo sia quello di blandirlo all’inverosimile, immaginando come l’avrebbe girato lui.

L’esito è che, tolto il trattamento delle figure femminili (su cui avremmo bisogno di un articolo a parte nella migliore delle ipotesi), L’uomo con i pugni di ferro ricalca in maniera sin troppo fedele il suo mentore e stella guida, tanto da poter aspirare al massimo al trono di brutta copia a suon di hip-hop. C’è tutta la comprensibile ancorché palese incertezza dell’opera prima, che in un eccesso di stima perde la bussola e non riesce più a discernere, cercando di trarre il meglio dalla propria Musa ma finendo col sintetizzarne il peggio. Anche questo succede.

Voto di Antonio: 4,5
Voto di Gabriele: 2

L’uomo con i pugni di ferro (The Man with the Iron Fists, USA, 2012) di RZA. Con RZA, Russell Crowe, Cung Le, Lucy Liu, Byron Mann, Rick Yune, David Bautista, Jamie Chung, Pam Grier e Daniel Wu. Nelle nostre sale da domani, giovedì 9 Maggio.