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Il profeta – La recensione in anteprima

Un profeta (An prophete) regia di Jacques Audiard, con Tahar Rahim, Niels Arrestrup, Alaa Oumouzoune, Gilles Cohen, Adel Bencherif, Sonia Hell, Pascal Henault.Ha solo 19 anni Malik El Djebena quando viene condannato a sei anni di carcere. Malik è giovane e ha commesso i suoi errori, ma è un ragazzo mite e di animo tranquillo.

pubblicato 18 Marzo 2010 aggiornato 2 Agosto 2020 05:09

Un profeta (An prophete) regia di Jacques Audiard, con Tahar Rahim, Niels Arrestrup, Alaa Oumouzoune, Gilles Cohen, Adel Bencherif, Sonia Hell, Pascal Henault.

Ha solo 19 anni Malik El Djebena quando viene condannato a sei anni di carcere. Malik è giovane e ha commesso i suoi errori, ma è un ragazzo mite e di animo tranquillo. Non ha nulla con se quando entra nella casa circondariale che lo dovrà ospitare, dei vecchi vestiti buoni solo per fare stracci, una banconota ripiegata e ben nascosta, solo un paio di scarpe da ginnastica che gli saranno rubate dai compagni di prigionia nel giro di pochi minuti. Malik è un piccolo pesce in un mare di squali e dovrà imparare presto a muoversi all’interno della gerarchia del carcere per vivere e sopravvivere. Dopo il trauma dei primi tempi, Malik, suo malgrado, capirà quali sono i meccanismi che regolano la vita dietro le sbarre e senza dare troppo nell’occhio riuscirà a costruire lentamente la propria credibilità. Al termine della sua reclusione Malik è diventato un uomo temuto e rispettato, con un piccolo impero da gestire. Tutto grazie a un criminale corso che gli ha offerto la sua protezione in cambio di piccoli lavori sporchi.

Quanti sono i film che hanno avuto come ambientazione un carcere? Difficile dirlo, ma è facile presumere che siamo nell’ordine delle migliaia. La prigione è un luogo perfetto per descrivere percorsi di redenzione, di caduta nel baratro, di amicizie virili, di scontri razziali, per realizzare il sogno aristotelico delle tre unità di tempo (luogo, azione e tempo) o, viceversa di frantumarle in una narrazione a mosaico.

Jacques Audiard racconta la stoira del giovane Malik El Djebena con un presupposto che potrebbe suggerire un futuro da predestinato: giovane e ingenuo, senza soldi e analfabeta Malik sembra essere semplicemente carne fresca gettata nel macello del carcere, destinato a cadere vittima delle leggi non scritte che vigono dietro le sbarre. Nonostante le sue origini nord africane, Malik accetta del regole che gli vengono imposte dall’ergastolano corso César, che gli promette protezione in cambio di continui favori.

Non difficile compiere una scelta, se l’alternativa è essere soccombere alla violenza. Inizia così la parabola di Malik, ignorante ma non stupido, che quasi senza volerlo riesce a cogliere ogni elemento della sua permanenza in carcere e giocarlo a suo favore. In carcere Malik impara a leggere e a scrivere, ma anche a comprendere il dialetto dei corsi e sfruttare la sua posizione per creare un ponte con gli altri detenuti magrebini da cui era stato in un primo momento emarginato. Una volta ottenuta la semi libertà dovrà compiere ulteriori lavori per César, ma sarà l’occasione adatta per dimostrare a tutti il suo valore.

A questo punto siamo arrivati solo a metà della storia di Malik, raccontata con rigore formale da Audiard, in una progressione drammatica degna delle grandi firme della storia del cinema francese. Jacques Audiard aveva già dimostrato di avere abbastanza polso per girare dei noir tesi e vibranti (in Francia li chiamano polar) come Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, ma questa volta firma un vero capolavoro, un film che riscrive a suo modo le regole del cinema carcerario. Come un perfetto congegno ad orologeria ogni passo che Malik compie all’interno del carcere, ogni azione che compie, ogni scelta che effettua sarà poi motivo di una reazione calcolata ed elaborata.

Il romanzo di formazione di Malik, perfettamente incarnato dal giovane Tahar Rahim che riesce a trasformare la sua prossemica in modo estremamente credibile, rappresenta il paradosso più atroce del mondo carcerario, il suo totale fallimento. Al posto di una redenzione, un ragazzo normale (finito quasi per sbaglio dietro le sbarre) impara proprio in prigione a delinquere, scoprendo che più spesso di quanto si possa immaginare il crimine paga e può diventare un concreto messo ci autoaffermazione, soprattutto quando non c’è altra alternativa di crescita. Nonostante la sua grande capacità di adattamento, Malik non è “il” profeta che il titolo italiano dichiara, ma è “un” profeta (uno fra i tanti) capace di comprendere il mondo che lo circonda, acquisirne le regole e ribaltarle a proprio vantaggio, sebbene non le condivida nel proprio codice genetico.

Un film duro, apparentemente distaccato, fortemente maschile (come spesso accade nel filone carcerario), ma anche una lucidissima parabola dell’assurdità dei comportamenti umani, per lo meno quelli rinchiusi all’interno di un microcosmo come è il penitenziario. Le scene d’antologia non si contano, e preferiamo non anticiparle. Un capolavoro premiato con trenta premi internazionali (tra cui 9 Cesar e il Gran Premio della Giuria a Cannes 2009) e ingiustamente dimenticato per questioni di politica distributiva, agli Oscar 2010.

Da vedere e rivedere. Serissimo candidato a miglior film del 2010.

Il profeta uscirà nelle sale Venerdì 19 marzo
Voto Carlo 9
Voto Gabriele 10
Voto Federico 8,5

Festival di CannesPremio Oscar