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Oscar 2010: Kathryn Bigelow non è Leni Riefenstahl

Il post su Kathryn Bigelow e il film vincitore di un bel mazzetto di Oscar 2010, The Hurt Locker, dal titolo La Bigelow gira come un uomo(?), ha spinto molti amici a intervenire nel nostro blog. Tante le osservazioni interessanti, invito a rileggerle o ad andare a leggerle. Tanti anche i giudizi diversi sulla qualità

pubblicato 10 Marzo 2010 aggiornato 2 Agosto 2020 03:37


Il post su Kathryn Bigelow e il film vincitore di un bel mazzetto di Oscar 2010, The Hurt Locker, dal titolo La Bigelow gira come un uomo(?), ha spinto molti amici a intervenire nel nostro blog. Tante le osservazioni interessanti, invito a rileggerle o ad andare a leggerle. Tanti anche i giudizi diversi sulla qualità del film e sull’opportunità di assegnargli tante statuette. Non mi sono sognato,e non mi sogno, di trarre conclusioni.

Il bello di CineBlog è la sua densa liquidità, nel senso che l’offerta pluralista dispensa dal fare bilanci che, nel cinema, e nel gioco delle opinioni, rischiano sempre di essere opinabili. Tuttavia, una cosa mi sento di dover dire. Riguarda le accuse ideologiche alla regista, addirittura bollata con la parola “fascista”. Io ho visto alla Mostra di Venezia il film- che mi piace moderatamente- e non ho avuto il bisogno di affibbiare questa etichetta.

Conosco, credo abbastanza bene, il cinema americano che racconta le guerre e penso che ci sia una profonda coerenza in esso che risulta dalle opere dei suoi registi più bravi. Ad esempio, sulla guerra in Vietnam si possono ricordare Francis Ford Coppola (“Apocalipse Now”), Stanley Kubrick (“Full Metal Jacket”), Oliver Stone (“Nato il 4 luglio”), Michael Cimino (“ Il cacciatore”), nomi a cui si possono aggiungerne tanti altri. Voglio anche ricordare, ad un altro livello, “Rambo” con Sylvester Stallone. Anch’esso, con tutto quando si può dire sul suo sfoggio di violenza, rientra in un atteggiamento generale di coerenza del cinema americano sulla guerra.

leni_riefenstahl regista Lo riassumerei così per brevità: rappresentazione dura, negativa, della guerra in quanto tale; sguardo impietoso e spesso sconvolgente sui metodi di preparazione al combattimento nelle scuole e caserme militari; denuncia di violenze sui civili (vedi Vietnam) ad opera di soldati americani; insipienza o addirittura follia degli alti comandi.

Questo da una parte. Dall’altra, rispetto del sacrificio dei soldati che muoiono per cause che spesso non condividono o escono mentalmente a pezzi dalle battaglie e dallo stress complessivo; rispetto per la bandiera a stelle e strisce, rispetto per il sentimento patriottico e per i veterani. Potrei citare i film che punto per punto comprovano i temi elencati. Ma voglio fermarmi qui. La Bigelow è, può piacere o no, è in questa corrente. E’ una brava regista, è una donna che “non” fa propaganda. Insomma, non è una Leni Riefenstahl che diventò la complice di Hitler e del nazismo con i suoi film (peraltro molto ben fatti).

La Bigelow non è una fanatica, né una “venduta”, né un’opportunista. Non è insomma né nazista né fascista. E’ una regista americana, che agisce dentro una democrazia, una democrazia con i suoi pregi ma anche con i suoi numerosi difetti. Difetti che per molti aspetti derivano da una corruzione del “sogno americano”: quello di imporsi con la forza e con la potenza. In Iraq, in Afghanistan. Anche l’Urss invase l’Afghanistan e fece molti morti, e pagò un alto prezzo. E’ la logica delle grandi potenze. Vorrei concludere con una battuta di Ennio Flaiano, autore citatissimo in questi giorni. Eccola: “…i fascisti si dividono in due categorie, i fascisti e gli antifascisti”. Ovvero, meglio guardare a fondo le situazioni che sparare conclusioni in invettive non sempre facili da dimostrare.