Home Notizie Torna Terrence Malick con To the Wonder: i suoi film e la sua eredità nel cinema americano di oggi

Torna Terrence Malick con To the Wonder: i suoi film e la sua eredità nel cinema americano di oggi

Esce oggi nelle sale italiane To the Wonder, il sesto film di Terrence Malick, e probabilmente il suo lavoro più discusso. Un’occasione per ripercorrerne la filmografia e soprattutto l’eredità dei suoi film nel cinema americano di oggi.

pubblicato 4 Luglio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 12:33


Cosa dire di diverso su Terrence Malick rispetto a quello che si può già leggere bene altrove? Partiamo da un aneddoto un po’ paradossale. Prima della proiezione stampa a Venezia c’era molto buzz attorno a To the Wonder, ovviamente. Si parlava di un film molto più piccolo rispetto a The Tree of Life, anche per la lavorazione più contenuta (si parla comunque pur sempre di due annetti).

Poi sono arrivate le dichiarazioni di Ben Affleck il giorno precedente alla prima stampa: To the Wonder sarebbe stato ancora più sperimentale di The Tree of Life. Un film più piccolo e ardito, quindi? Quando il film è iniziato, vedendo quelle prime riprese fatte col cellulare, ammetto che mi è venuto un colpo: vuoi vedere che, come qualcuno aveva anche ipotizzato, Malick ha davvero fatto un film così piccolo, ma così piccolo da… essere girato col cellulare?

Un Malick super-indie, totalmente low budget e libero persino… dalla macchina da presa? Alla fine non è andata così, ovviamente: altrimenti voleva dire che Malick era stato quasi influenzato dal Mumblecore… E finora Malick non è mai stato direttamente influenzato da altri nel suo stile e nel suo cinema, ma ha sempre influenzato altri e dettato nuove regole, aperto nuovi sguardi, insegnato altri modi di girare, di pensare e fare cinema. E To the Wonder è, piaccia o meno, cinema radicale e personalissimo.

L’estetica di Terrence Malick non solo ha partorito una serie di figli che ne hanno studiato la forma e le intenzioni, ma ha fatto proprio scuola. Basta vedere tutto il filone del cinema indipendente “sudista”, ambientato nelle zone più rurali degli Stati Uniti. Ovviamente c’è chi ha saputo reinventare l’estetica malickiana e personalizzarla, mentre altri hanno semplicemente trasportato la “superficie” dei suoi film e l’hanno applicata in modo scolastico.

Del cinema indie più recente, uno dei registi che più hanno imparato da Malick e hanno saputo personalizzarne la lezione è David Gordon Green (non quello delle commedie sceme, ovviamente). Il suo folgorante esordio, George Washington, ne è la dimostrazione più palese, visto lo sguardo sulla periferia americana e sulla natura, personalizzato però attraverso un uso quasi “sospeso” del rallenti e momenti di commovente ironia.

I primi film di Gordon Green hanno storie lineari in cui a metà succede qualcosa (un omicidio, la rottura improvvisa di un amore…), ma è proprio la riflessione sull’innocenza dei suoi personaggi alle prese con la realtà e la natura ad accomunarlo a Malick. Non a caso il regista gli ha prodotto il suo terzo film, Undertow, che in generale deve molto al cinema “spericolato” e senza paura degli anni 70.

Quel cinema spericolato e senza paura a cui si rifanno Sun Don’t Shine di Amy Seimetz e Ain’t Them Bodies Saints di David Lowery. Due storie d’amore folli, con la prima che richiama esplicitamente La rabbia giovane sin da subito. Ma il secondo è molto più bello del primo proprio perché reinventa la lezione di Malick attraverso un curioso uso della fotografia e della musica: la Seimetz invece è più acerba perché lavora di superficie (esteticamente il suo film è una bomba) dimenticandosi un po’ dei personaggi. Cosa che non fa Lowery, il cui film funziona come un diesel.

Andrew Dominik con il sottovalutato L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford assorbe la lezione di Malick sull’uso del paesaggio (vedi soprattutto I giorni del cielo), lavorando di atmosfera e mood. E Jeff Nichols è un ottimo erede di Gordon Green, a sua volta erede di Malick. Ma quello che negli ultimi anni ha ereditato nel modo migliore l’estetica del regista mi sembra essere Benh Zeitlin. Il suo Re della Terra Selvaggia conferma che la matrice del cinema indie americano rurale è il cinema del regista dell’Illinois, ma conferma pure che è utile partire da lì per inventarsi qualcosa di nuovo e personale.

Gli echi malickiani in Re della Terra Selvaggia non si contano: ma non perché Zeitlin voglia omaggiare il maestro o, ancora peggio, copiarlo. Re della Terra Selvaggia ci dice che Malick è entrato ormai nel dna di questo cinema, e che ci sono registi pronti a spiccare il volo con personalità, adattando e trasformando quei codici ormai così famigliari e distillandone un’inedita magia.

Il discorso però adesso per molti critici riguarda Terrence Malick stesso, oggi che il regista sembra avere fretta di fare tutti i film che non ha mai girato prima. Ossia è vedere se riuscirà ancora a sorprendere o resterà imprigionato in un modo di fare cinema che rischia di diventare – o è già – maniera. Il dibattito con To the Wonder è più che mai aperto, tra sostenitori e detrattori. Ma è indubbio che Malick abbia già lasciato un segno indelebile, ed un’eredità con la quale una fetta importante di cinema americano deve fare seriamente i conti tutti i giorni.

I 6 film di Terrence Malick

La rabbia giovane (1973): esordio col botto, anche se non fu subito capito. Malick riaggiorna la “ribellione senza causa” dei giovani anni ’50 alla disillusione e alla violenza degli anni ’70. Ne esce fuori un ritrattino tosto e unico, in un viaggio on the road che la violenza la porta allo scoperto. Straordinario Martin Sheen che, anche nel look, richiama non a caso James Dean; e Sissy Spacek è un’anima candida pronta ad essere macchiata di sangue. Inquieto, affascinante e ipnotico come le landscape del Colorado. Capolavoro seminale, ma di quelli veri: in molti hanno tentato di copiarlo invano, e il suo mood ha fatto scuola.

I giorni del cielo (1978): la conferma col botto (anche se non fu subito capita…). Inizio secolo, una fattoria in mezzo al Texas più rurale (ma il film è girato in Canada). Lui (Richard Gere) arriva con la sorellina e la fidanzata, conosce il proprietario del ranch – che sta morendo -, e studia un piano che dovrebbe regalargli fortuna. Melodramma in cui la natura fa ancora una volta la differenza: meravigliose badlands su cui si stagliano un triangolo sofferto ed una distanza incolmabile tra uomini. La scena delle locuste e dell’incendio è tra le più belle della Storia del cinema. Tre anni di post-produzione, una colonna sonora di Morricone inedita e bellissima, e un meritato premio per la miglior regia a Cannes.

La sottile linea rossa (1998): vent’anni dopo, il ritorno col botto (e qui nessuno ha avuto dubbi). Il war movie secondo Terrence Malick: c’è tutta la riflessione sull’orrore della guerra, e c’è ancora la bellezza immutata, commovente e immobile della natura. Se è vero che ognuno combatte su questo scenario la propria guerra, la voce off delle precedenti opere (che era la voce narrante dei personaggi femminili) qui diventa un coro, un insieme, un flusso di coscienza singolo che diventa universale. Umano, pieno di rabbia e paura, anche se tranquillo, paradossalmente “pacifico”: la guerra è anche – soprattutto? – all’interno dell’uomo. Attori tagliati al montaggio come se piovessero. Orso d’oro a Berlino e 7 nomination agli Oscar, ma neanche una statuetta vinta nell’anno del trionfo di Shakespeare in Love. Capolavoro assoluto.

The New World – Il nuovo mondo (2005): il primo film controverso. Malick rilegge la storia di Pocahontas: ovviamente a modo suo. Ancora voci off: pensieri di stupore, di tristezza, di amore. John Smith: il suo stupore per una natura incontaminata, per la scoperta di una civiltà pura e lontana. Pocahontas: l’amore per Smith, il suo dolore perché se n’è andato, lo stupore di scoprire il Vecchio Mondo. Riflessione filosofica e poetica sulla purezza, sull’Innocenza e sulla contaminazione del colonialismo, che alla fine si trasforma in un nuovo triangolo amoroso. Un film difficile, a tratti naïve: e sta forse qui il punto. Ma c’è chi già parla di “maniera”. Avercene, però. Anche qui, attori tagliati al montaggio ed un Christopher Plummer incazzato nero, più del Sean Penn di The Tree of Life.

The Tree of Life (2011): cambio di rotta, con il primo film del nuovo percorso di Malick, il suo primo film “autobiografico”. La semplicità della complessità: perché è compito difficilissimo saper ridare la “verginità” a momenti quotidiani, allo sguardo dei bambini, ai ricordi dell’infanzia. E si esplicita tutto il discorso fatto finora coi precedenti lavori grazie alla dicotomia Grazia/Natura: ma è un discorso sempre ad “altezza bambino”, un percorso personale di ricordi e rielaborazione (del lutto, della perdita dell’innocenza) illuminato dalla cornice cosmogonica che rivendica la spiritualità del film (non la religiosità: c’è differenza). Sublime Jessica Chastain, rivelazione femminile di Hollywood tra le più sorprendenti dell’ultimo decennio. Palma d’oro a Cannes dopo la pioggia di fischi, applausi e boati alla prima stampa, e 3 nomination agli Oscar, tra cui miglior film e regia. La recensione da Cannes 2011 e un’interpretazione del film.

To the Wonder (2012): secondo film “autobiografico”. The Tree of Life senza pianeti e dinosauri? Secondo molti, sì. Secondo altri è semplicemente il film più intimo del regista. Personaggi che continuano a tendere “verso la meraviglia” e poi si scontrano costantemente con la realtà, con la crisi, con gli amori che finiscono. Per la prima volta c’è addirittura un’evidente sessualità. Il film più respingente di Malick, prendere o lasciare: lo si lascia perché non si entra nella storia, ci si annoia alla grande e perché c’è il rischio di supercazzola (”Io sono l’esperimento di me stessa”, dice senza pudore Romina Mondello); lo si tiene perché è unico, ed è una lettera d’amore disarmante ad una donna amata in passato. Lo sguardo sulla periferia americana, poi, è meraviglioso. In concorso a Venezia, dove ovviamente il clima alla fine della prima stampa era da stadio. La recensione da Venezia 2012 e la recensione di Roger Ebert (l’ultima).

Torna Terrence Malick con To the Wonder: i suoi film e il suo cinema
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