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Tracks: Recensione in Anteprima del film di John Curran

Deserto come condizione umana. Così ce lo propone John Curran nel suo Tracks, con una stupenda Mia Wasikowska che ci accompagna lungo questo cammino alla riscoperta di sé e di colui che chiamiamo “altro”

pubblicato 30 Agosto 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 10:16

Viaggiare è un arte. Chissà in quanti l’avranno già detto, e quanti ancora lo diranno. Tuttavia nel corso del tempo si ha avuto modo di assistere all’inflazionarsi vieppiù mortificante di questo seppur nobile termine. Termine che evoca immagini meravigliose, quali che ne siano gli oggetti. Sant’Agostino diceva che «la vita è come un libro, e chi non viaggia ne ha letto una sola pagina». Ma se stessimo qui a riportare aforismi a tema non ne usciremmo più. Il punto è che un film come Tracks di John Curran si pone esattamente su questo livello di speculazione, per via di questa sua smodata propensione nel ridestare la sacralità rimossa insita nel viaggiare.

Viaggio che in questo ritratto fortemente ed inevitabilmente naturalistico del regista australiano assume un senso altro, qualcosa di più del semplice macinare distanze. Protagonista una meravigliosa Mia Wasikowska, sempre più a suo agio, sempre più al top. Ed è di per sé evidente che per un racconto del genere servisse un interprete forte, che infondesse quell’intensità che deve trasmettere un personaggio come Robyn Davidson. Tracks è infatti il best seller scritto dalla Davidson a seguito del suo lungo viaggio attraverso il deserto australiano; trattasi dunque di una storia vera.

Nel film veniamo argutamente catapultati poco dopo l’inizio di questo tortuoso percorso, risparmiandoci un’introduzione tesa in qualche modo ad illustrare quale sia lo status quo prima di una decisione così drastica. Per quest’ultima componente, Curran si serve invece di alcuni poetici flashback, disseminati con la massima discrezione lungo l’inoltrarsi di Robyn nel deserto. Di fatto, questa è l’unica licenza, se così possiamo definirla, che il regista si concede: il resto è asciutto, senza troppi fronzoli, focalizzandosi su questa maturazione che, a dispetto degli evocativi scorci e panorami, è anzitutto interiore.

Curran ha un’intuizione, che peraltro risulta vincente: quella di servirsi degli spazi esterni come spazi introspettivi. Le tracce che Robyn lascia lungo il suo travagliato cammino sono quelle che, in realtà, tale cammino marchia a fuoco in lei. Di tanto in tanto assistiamo a queste plongée che hanno un impatto davvero notevole, mentre un delicato movimento di camera in avanti ammette l’implicito e sofferto progredire di questo miracolo interiore. Ed è già avventura, non più viaggio. Non lo capiamo subito, e di questo bisogna riconoscerne il merito a regista e sceneggiatore, che lavorano molto bene con la loro e sulla loro protagonista: quella che, da spavalda avventuriera senza limiti ma consapevole della sua inadeguatezza, sperimenta con graduale violenza quanto la sua ambizione rischi di travolgerla fino al sacrificio estremo.

Anche un film onesto, Tracks, che non cela la spiccata fragilità della giovane avventuriera, la quale ad un certo punto dirà esattamente che intende «dimostrare che anche persone normali possono fare cose impossibili». Nessun disagio, dunque? Beh, questa sarebbe l’intepretazione più errata in cui ci si possa imbarcare. Perché il disagio di Robyn è lì, svelato con pudore ma ad un certo punto talmente manifesto da accecare gli occhi. Il vero deserto che vive la protagonista è quello che lei stessa, intenzionalmente o meno, ha costruito intorno a sé: una gabbia in cui a nessuno è permesso entrare, né all’interno della quale è consentito anche solo sbirciare. Tremenda questa condizione, che fa passare in secondo piano tutto il resto: gli stenti, la fatica, persino la ragionevolezza del proposito iniziale.

Perché quella di Robyn è anzitutto vita, ridotta a simboli, metafore, ma pur sempre vita. Un’esistenza fatta di carcasse di animali morti, così come tante ne vediamo nel corso del film, personaggi decisamente particolari (come lo spassosissimo aborigeno Eddy), gente il cui magari inconsapevole scopo è solo quello di recare fastidio, persone che ci amano, persone che non ci capiscono, bestie, persone. Come già avvertito poco sopra, Curran mappa il deserto spirituale di Robyn servendosi di quanto gli offre quello vero, tanto accattivante quanto pericoloso. Non prima di essersi comunque scelto un utile compagno di viaggio, certo: così come Stevenson si affida all’asina Modestine in Travels with a Donkey in the Cévennes, Robyn si affida invece ad un animale più idoneo al contesto per trasportare le proprie cianfrusaglie.

Un invito a tornare in sé stessi, come appunto il già citato Sant’Agostino esortava a fare. Qualche analogia, volendo, la possiamo trovare con Into the Wild, da cui però Tracks si discosta e per obiettivi e per sviluppo. Il percorso di Robyn rappresenta senz’altro una “fuga dalla civiltà”, animata però da un atteggiamento apparentemente più genuino rispetto a quello di Christopher (Emile Hirsch): quest’ultimo opera una scelta di vita, anche e forse soprattutto in odio a tutto ciò a cui era stato abituato sino a quel momento. Robyn no, la sua è una decisione più viscerale, dalla quale la mente si è dovuta in parte astenere; in questo senso è più genuina, poiché essenzialmente scevra da tutto quel contorno pseudo-intellettuale che compie l’altrettanto (se non più) incosciente Christopher.

Ma soprattutto, come dicevamo, è lo sviluppo ad essere diametralmente opposto. Tracks è la storia di una risalita, quella che porta a riscoprire sé stessi, a riemergere dalle acque dell’Oceano completamente rigenerati, anche se non senza passare da un’estrema sofferenza, da quella solitudine radicale che in fondo è presupposto base ai fini del raggiungimento di tale meta. Into the Wild ci mostra invece la strada verso l’abisso, sentiero intrapreso senz’altro con la medesima sincerità, e che non a caso approda ad una delle conseguenze possibili, la più devastante. Ed è in questo suo indossare una nuova pelle che Robyn trova un senso e che noi veniamo in qualche modo catturati, quando lei, da arrogante viaggiatrice quale è all’inizio, diviene la più che dignitosa avventuriera della seconda parte del film.

Certo, il rischio è un po’ di perdersi in mezzo a tutto quell’indugiare su paesaggi e contorni, che però servono, anzi sono imprescindibili per raggiungere lo scopo che Tracks si prefigge. Con ogni probabilità è per questo che alcuni sono rimasti tiepidi, appena sfiorati da Tracks, che invece è un ritratto duro, profondo di questa perigliosa discesa tra adorabili cammelli e fascinosi scatti fotografici.

Voto di Antonio: 7,5
Voto di Gabriele: 7

Tracks (Australia, 2013) di John Curran. Con Mia Wasikowska, Adam Driver, Robert Coleby, Emma Booth, Rainer Bock, Jessica Tovey, John Flaus, Melanie Zanetti, Tim Rogers, Lily Pearl, Darcy Crouch, Felicity Steel, Daisy Walkabout e Roly Mintuma.