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L’altra Heimat. Cronaca di un sogno: Recensione in Anteprima del film di Edgar Reitz

Edgar Reitz riprende il discorso provvisoriamente concluso nel 2006 tornando indietro nel tempo. Con Die Andere Heimat ci si sposta a metà ‘800, in una Germania allo stremo delle forze, lasciata al proprio destino da tanti, troppi suoi figli in cerca di una vita migliore lontano da tutta quella triste miseria

pubblicato 7 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 09:54

240 minuti. Una passeggiata in confronto alla mastodontica mole di materiale accumulato da Edgar Reitz nel corso di quasi trent’anni, a partire cioè da quando inaugurò il complesso progetto cui diede il nome di Heimat. In tedesco Patria, quella che Reitz descrive senza nulla tacere, o almeno provandoci. Un Paese fatto di contraddizioni, come tutti i Paesi, ma sempre illustrato con trasporto, attraverso le piccole/grandi storie di personaggi ordinari, alle prese con tutta quella serie di sfide e complicazioni che ciascuno di noi, ovunque si trovi, è tenuto a confrontarsi.

Abbiamo aperto questo nostro pezzo con la durata di Die Andere Heimat; certo non con intento velatamente sarcastico, bensì per evidenziare come nel tempo questo viaggio nel cuore della Germania sia stato via via ridimensionato, in verità a partire dal penultimo episodio, della più che contenuta durata di 2 ore e 26 minuti. Sembra quasi irrispettoso porre così tanta enfasi su un elemento a conti fatti secondario come la lunghezza del film, specie se si pensa a quanto prezioso risulti il contributo di Reitz. Perché le sue sono storie che non risentono né del tempo circoscritto all’ambito della pellicola, né di quello che procede inesorabile nel corso della nostra esistenza. Documenti che con il passare degli anni rischieranno di dover essere tenuti in considerazione quasi quanto, se non al pari, di quelli non fittizi. Probabile.

Stavolta il cineasta tedesco ci porta nella Germania di metà ‘800, spostando quindi la lancetta cronologica della serie ulteriormente all’indietro (il viaggio con la prima serie comincia nel 1919). Qui conosciamo Jakob Simon, un giovane particolarmente dotato dunque incompreso dal padre che lo vorrebbe suo apprendista in qualità di aspirante fabbro. Sono tempi duri, difficilissimi per la Germania di allora: la fame incalza, molta gente vive in miseria, ed il clima rigido della mai troppo corta stagione invernale rende la vita una continua lotta per la sopravvivenza. La forbice sociale, se così la possiamo definire, è più ampia che mai: i sistemi cosiddetti democratici sono ancora di lì a venire, in un contesto in cui sono i ricchi possidenti a governare per eredità su enormi appezzamenti di terreno, concessi a mo’ di prestito a coloro che davvero abitano certe aree e che vivono di tutto ciò che si produce e si fabbrica in loco.

Superfluo, dopo tutti questi anni, menzionare l’abilità di Reitz nel costruire geograficamente, politicamente e socialmente un simile quadro, lasciando tutto sullo sfondo, quasi che le storie in primo piano non avessero quintessenzialmente a che vedere con quello scenario lì. Altroché invece! Quanto assistiamo in Heimat appartiene in toto a quel contesto specifico come la terra che i vari personaggi calpestano; in altre parole, sono storie che non si possono astrarre in alcun modo da quei luoghi, ai quali sono per così dire connaturati.

Anche in quest’ultimo Die Andere Heimat non viene meno tale pressante sensazione, costantemente corroborata da tutta una serie di episodi, rilevanti o meno, che ci immergono in quelle storie, ciascuna in qualche modo legata all’altra. Il giovane Jakob sogna l’Amazzonia, quelle terre all’epoca ancora più vergini di quanto non lo siano oggi, come fossero il paradiso in terra. Un semplice desiderio di fuga adolescenziale, oppure c’è qualcosa di più in questa sfrenata ossessione per il Nuovo Mondo da parte del giovane e talentuoso sognatore? Anche in questo caso ci viene in aiuto l’ambiente, che vede sempre più gente compiere il grande passo, ovvero espatriare per sempre verso quelle terre ignote, ergo tanto affascinanti quanto terribili. Ma per lui, che di quel mondo sa solo ciò che i libri gli hanno raccontato, c’è tutto un alone di magia e mistero che ammanta l’intera questione. I libri: quegli oggetti così alieni ad un microcosmo per lo più avulso da qualsiasi forma di alfabetizzazione testuale, che coltiva ben altro e più nobile tipo di saggezza e conoscenza, ossia quella infusa dalla pratica, dall’esperienza (come la nonna, che parla poco, quasi mai… ma quando lo fa è per elargire sentenze inappelabili).

Ma poiché il viaggio attraverso i vari Heimat è sempre e comunque un’epopea generazionale, è mediante il dipanarsi di apparentemente semplici esistenze che filtra il senso di ciò che vediamo, quella verità di fondo che si industria con così tanto zelo a trasmettere. In tal senso anche quest’ultimo tassello non può fare a meno di personaggi che siano vivi, con i quali stabilire un qualche contatto, venendo almeno sfiorati dalle loro gioie così come dai loro dolori. Presupposto principe, questo, da cui non si può in alcun modo prescindere ai fini della corretta percezione di tutto ciò che ci viene posto dinanzi. Se, per esempio, faticassimo a comprendere quali forze, quale spirito muova Jakob all’inizio e quale alla fine, dopo aver macinato anni ed assimilato situazioni improvvise che lo hanno irrimediabilmente cambiato, non sarebbe proponibile l’idea di cogliere quel quid che giustifica tutto ciò che abbiamo vissuto anche noi in terza persona.

In un’epoca così intrisa di sofferenza, è di piccole cose che ci si deve nutrire al fine di lenire le ferite che costantemente venivano aperte; e notare che il motto di quella gente è : «qualunque destino è meglio della morte». Sul tavolo del dibattito la tradizione, la famiglia, ed altre questioni che vengono a più riprese tirate in ballo senza necessariamente una presa di posizione inequivocabile, talvolta da taglio documentaristico nudo e crudo, nel senso per certi versi estremo di accendere una macchina da presa e lasciare che l’azione si racconti da sé, senza particolari interventi di sorta.

Ciò che fa Reitz, dunque, è estrapolare frammenti di realtà per poi metterli assieme a mo’ di collage. Di tanto in tanto colora una parete, un dettaglio, quasi a volersi intromettere con discrezione e delicatezza in quelle storie così autonome, perciò così vive. Con quel tono malinconico, con quel vago accenno nostalgico di chi riesuma dalla soffitta cartoline risalenti a un periodo oramai scomparso, sepolto sotto le macerie del tempo e della memoria.

A questo punto assume ancora più un senso quel nostro accenno alla durata posto in apertura, nella misura in cui ci ricorda che un cammino di questo tipo non può essere stipato all’interno di una recensione, ma probabilmente nemmeno di un romanzo o chi per lui. Perché questa ennesima esplorazione del maestro Reitz va intrapresa così per come è stata concepita, vista da dentro pur restandone fuori; come solo il cinema può e sa fare.

Voto di Antonio: 8,5

Die Andere Heimat (Germania, 2013) di Edgar Reitz. Con Werner Herzog, Marita Breuer, Julia Prochnow, Konstantin Buchholz, Maximilian Scheidt, Mélanie Fouché e Jan Schneider.