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Il treno va a Mosca: recensione in anteprima

Torino Film Festival 2013: un affascinante e curioso “affresco” di un pezzo di storia italiana costruito attraverso alcuni home movies. Il treno va a Mosca, il documentario di Federico Ferrone e Michele Manzolini, è una specie di “road movie” che parla di utopia e disillusione. In concorso.

pubblicato 28 Novembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:50

Si può raccontare una storia usando solo degli home movies? Si può, e Il treno va a Mosca conferma che l’operazione non solo ha fascino ma è anche decisamente sensata. Secondo film italiano in concorso al Torino Film Festival 2013, l’opera firmata da Federico Ferrone e Michele Manzolini è un oggetto strano e curioso che attira sin da subito l’attenzione.

Tutto ha inizio nel 1957. Ad Alfonsine, uno dei tanti paesini della Romagna rossa distrutti dalla guerra, il barbiere comunista Sauro Ravaglia e i suoi amici sognano l’Unione Sovietica, unica terra in cui si realizza il loro ideale di pace, fratellanza e uguaglianza. Quando si presenta l’occasione di visitare Mosca, durante il Festival mondiale della gioventù socialista, il gruppetto parte: le aspettative sono altissime e tanta la voglia di portare a casa più immagini possibili di quello che sarà il viaggio della vita.

70 minuti, tanto è la durata di questo documentario, per narrare la nascita di un’utopia e l’inizio delle disillusioni di un’epoca, di un paese e di un’ideologia. Alla fine degli anni 50 il socialismo e l’Unione Sovietica erano le uniche realtà possibili: ecco perché i giovani volevano andare a Mosca, attirati anche dall’idea del 6° Festival mondiale della gioventù. Pace e Amicizia: queste erano le due parole chiave della riunione speciale, capace di chiamare l’attenzione di 131 paesi e circa 34.000 partecipanti.

Il treno va a Mosca racconta una storia personale, un viaggio documentato attraverso il materiale girato da Sauro e i suoi amici di avventura. Dell’uomo, che oggi ha 81 anni, sentiamo soprattutto la voce off, filo conduttore e narrante dell’opera; lui lo vediamo di persona (oggi) solo in pochissime scene. Perché poi il film di Ferrone e Manzolini è davvero costruito tutto con filmini privati girati all’epoca. Così ne viene fuori un affresco molto più ampio, in cui dal particolare (il viaggio di Sauro) si tende verso l’universale (l’ideologia comunista).


In mezzo c’è la storia di un paese in un momento in cui l’identità si sta ricostruendo dopo il fascismo e dopo la guerra. L’Italia sta vivendo un momento di gioia e speranza, ben rappresentati nell’opera dal momento del “veglione rosso”, in cui si può restare alzati a ballare fino alle 2 di notte. Lenin e Stalin sono gli uomini del momento, miraggi non troppo lontani per tutte le centinaia di ragazzi che decidono di partire in treno verso la Russia.

Il treno va a Mosca è quasi un road movie in cui viaggiando si fanno incontri e scoperte: e come in tutti i viaggi ci possono essere scoperte buone e scoperte non così buone. Ad esempio si possono incontrare persone da tutto il mondo, persone appassionate e speranzose con cui condividere idee e ideologia. Si può poi invece scoprire che in Russia si dorme in decine di persone nelle case tutti per terra e poi si viene trasportati sul luogo di lavoro ammassati in camion.

Ferrone e Manzolini sono nati entrambi negli anni 80, e non hanno quindi vissuto nulla del periodo di cui parlano. Il loro è quindi uno sguardo prima di tutto curioso, che ha voglia spesso di lasciar andare le bobine di questi affettuosi home movies avanti e avanti, quasi per lasciare che lo spettatore continui a vedere “come eravamo”. La loro età gioca a favore anche per quel che riguarda la distanza nei confronti della materia: non c’è alcune voglia di fare la morale, di giudicare, di dare sentenze. Vogliono innanzitutto raccontare una storia, e lasciare che siano le immagini a parlare.

Alternando filmati in bianco e nero e altri a colori, il montaggio di Sara Fgaier (già autrice di quello de La bocca del lupo) compie un piccolo miracolo nello sfruttare con coerenza il materiale visivo. Il treno va a Mosca va infatti da A a Z, ha un inizio e una fine. Solo ogni tanto si avverte qualche cedimento, qualche momento che pare un passaggio a vuoto, ma il risultato è di quelli che si lasciano innanzitutto ammirare. Con una chiusura, poi, che fa pensare a quello che poteva essere e a quello che non è stato più.

Voto di Gabriele: 7

Il treno va a Mosca (Italia 2013, documentario 70′) di Federico Ferrone e Michele Manzolini.

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