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American Hustle: Recensione in Anteprima

David O. Russell ci trasporta negli anni ’70 dai titoli di testa a quelli di coda in American Hustle. E con un cast d’eccezione, composto da Christian Bale, Jennifer Lawrence, Bradley Cooper, Amy Adams e Jeremy Renner

pubblicato 5 Dicembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:31

American Hustle è come una giostra. Ci sali sopra e non sai cosa aspettarti, sebbene già viste da sotto certe altezze facciano venire le vertigini. Così è con l’ultimo film di David O. Russell: leggi il cast, osservi due/tre immagini e sei lì ad immaginare una delle esperienze più eccitanti degli ultimi tempi oppure una delle più deludenti, che tanto promettono e poco o nulla mantengono.

Una giostra, dicevamo. Volessimo perseverare con questa incerta metafora, ci piace pensare alle montagne russe; partenza dal ritmo saggiamente contenuto, mentre già scorgi la prima salita ripida che altro non è che il preludio a quella discesa a velocità folle che ti toglie il fiato. Sì, possiamo dirlo, tutto ciò in American Hustle si sperimenta. Con le dovute proporzioni, s’intende. Perché in fondo quando assisti a Christian Bale totalmente applicato nell’arte del riporto, mentre la scena in questione apre le danze e si porta via i suoi bei cinque minuti, allora sai, sempre in fondo, che a breve succederà qualcosa.

Irving Rosenfeld (Christian Bale) è un truffatore. Anzi, è proprio un genio della truffa. Uno che non ha mai avuto troppi grilli per la testa, che ha sempre vissuto col disincanto di chi sa che la fiducia è indice di debolezza, perché a vincere è sempre quello che inganna il prossimo. La sua fiorente occupazione si snoda attraverso più attività, non ultima quella di fornire consulenza per dei prestiti che mai si perfezioneranno, ma che nel frattempo rendono a lui ed alla sua meravigliosa amante Sydney (Amy Adams) la bellezza di 5 mila dollari a botta. Così, senza muovere un dito. E sono gli altri, ossia i raggirati, a pregare pur di avere quei soldi, eh.

Mescolando realtà e finzione, Russell ci porta dritti dritti sul finire degli anni ’70, quelli che avevano già visto il tramonto della zampa d’elefante forse, ma che non erano ancora riusciti a liberarsi di certe pettinature che furono emblema di un periodo tutto. Tra una cosa e l’altra, però, quelli furono anche gli anni delle intercettazioni a tappeto, tese a far emergere la stretta connessione tra politica e malaffare; tangenti e favori di vario tipo. Cose che conosciamo insomma.

Succede allora che Irving e la sua socia Sydney vengono scoperti. A riuscirci è l’intraprendente Richie Di Maso (Bradley Cooper), zelante agente dell’FBI in spasmodica attesa di farsi un nome, di stanare i cattivi e ripulire il proprio Paese dal lerciume al quale costoro lo stanno costringendo. Messe le carte in tavola non resta che fare una cosa ed una soltanto: collaborare. Sì, si ragiona su qualcosa di alternativo, ma a conti fatti il buon senso conduce a quest’unica soluzione. Il talento di Irving può far comodo all’FBI, così come il sedere e le gambe di Sydney a Richie.

Un siparietto, quello tra questi tre personaggi, che si instaura immediatamente, pronti via. È qui che il film comincia, nel vero senso della parola: titoli di testa – parrucchino con annesso riporto – battute mordaci tra Irving e Richie. Russell mette subito le cose in chiaro dunque: signori e signore, davanti a voi avete una commedia. Alt però. Perché in fondo il leitmotiv narrativo del film funziona anche in relazione allo spettatore. Perché American Hustle non fa alcuna resistenza, lasciandosi etichettare senza alcun problema. In cambio ti incalza, ti riempie come sacco da pugile e comincia a suonarti come solo un peso massimo sa fare.

Basterebbe solo quel quarto d’ora (che forse era di più ma non ce ne siamo accorti perché a quel punto perdi la cognizione del tempo) presso il Casinò appena ristrutturato dal benintenzionato Carmine Polito (Jeremy Renner), beniamino della gente del New Jersey, la cui fedeltà viene ripagata con una dedizione radicale. In questa scena da capogiro c’è, in nuce, tutta l’aggressività e la portata di American Hustle: con un montaggio che alterna all’incirca tre/quattro situazioni diverse, Russell crea un tourbillon di sensazioni che spingono la recitazione a livelli paurosi. A noi, spalmati sulle nostre poltrone, non resta che assistere in apnea a quel ritmato avvicendarsi di episodi, che crescono, si legano e si concludono quando oramai non ne hai più anche se ne vorresti ancora e ancora. Cinema che non vedi spesso e che in certi punti rievoca Scorsese togliendosi il cappello, con riverenza, senza però calcare troppo la mano.

Descrivere più di tanto American Hustle non puoi perché l’intera narrazione vive di dinamiche che si innescano una dopo l’altra, per lo più in maniera consequenziale; e non che di per sé il soggetto brilli per originalità o chissà cosa. Allora non ti resta che ripiegare sui suoi attori, i quali rendono ancora più ardua l’analisi dato che ad un certo punto non sai se elogiare di più una sceneggiatura così robusta e dall’ingranaggi ampiamente oliati, oppure loro, gli interpreti, quelli che per intenderci si fanno un mazzo così ed in alcuni casi ti regalano pure alcune delle uscite migliori delle rispettive carriere. Un Christian Bale superbo e trascinante, con la provocante Amy Adams giusto mezzo gradino sotto. E nonostante Cooper mostri ancora margini di miglioramento, c’è in ogni caso da riconoscere il determinante operato di Russell, le cui mani stanno letteralmente plasmando un attore con tutte le carte in regola.

Ad ogni modo, un saggio di bravura notevolissimo da parte dell’intero cast nel suo insieme – e noi sappiamo quanto sia avventato profondersi in superlativi. Eppure ciò a cui si assiste in American Hustle è da scuola di recitazione, di quelle migliori però. Ognuno al proprio posto, che compaia per due minuti o per un’ora poco importa; ciascuno fa il suo, senza lasciare impronte e procurando al dipanarsi della trama una fluidità disarmante. Un film che non s’inceppa mai, in nessun caso, anche se in quell’ultimissima parte l’impressione è che un’ulteriore spuntatina avrebbe giovato. Ma non ci si formalizza mica, ed anzi si applaude per quelle due sostanziose ore in cui tu eri là dentro, in mezzo a quei personaggi, nella costa orientale degli USA sul finire dei ’70.

Dopo due rilevanti conferme come The Fighter e Il lato positivo, Russell a ‘sto giro ingrana la quarta e ci consegna il suo film migliore. Teso pressoché per la sua intera durata, denso e corposo senza mai risultare indigesto, anzi. Lo si beve quasi tutto d’un fiato, lo stesso che ti viene mozzato e poi restituito, e poi di nuovo mozzato perché mentre riprendi aria ecco lì l’infinita barzelletta dei «due fratelli che pescano sul ghiaccio». A ben vedere semplice come è giusto che appaiano le più riuscite performance di magia, ché alla fine sembra tutto molto facile perché di intoppi non ne hai visti manco a pagarli. Eppure, nella sua scorrevolezza ed apparente semplicità, che è poi la cifra stilistica di un regista al quale non servono troppe pose acrobatiche per raccontare storie, dicevamo, dietro la sua apparente semplicità American Hustle cela un lavoro corale da fare invidia.

Sidney Lumet asseriva di poter affermare con assoluta certezza che «stesse facendo un film» solo quando tutti coloro che erano coinvolti nel processo remavano verso la medesima direzione. Ebbene, in un periodo in cui il cinema indie è sempre più in auge e ad Hollywood tocca sempre più registrare (non di rado meritatamente) gli strali di critica e pubblico, American Hustle ci ricorda con vigore ed in maniera oltremodo luminosa l’importanza di quella macchina che fa cinema. Raramente è così tangibile, infatti, un’affinità tanto pronunciata tra i vari dipartimenti, sicché elogiandone uno solo si rischia di banalizzare il lavoro vitale dell’altro. Perché tutto concorre al successo di questo piccolo/grande film, dal trucco alla scenografia, passando dal comparto sonoro (brani fenomenali) fino al già citato montaggio. Sventando con estrema disinvoltura la minaccia più concreta in contesti simili, ossia la banalità. Eh sì, l’altro ieri sembrava proprio di stare al cinema. Quello che ci piace tanto e che, si sia d’accordo o meno, solo da quelle parti riescono a fare a certi livelli. Malgrado tutto.

Voto di Antonio: 9
Voto di Federico: 8
Voto di Gabriele: 4

American Hustle (USA, 2013) di David O. Russell. Con Jennifer Lawrence, Christian Bale, Robert De Niro, Bradley Cooper, Amy Adams, Jeremy Renner, Jack Huston, Louis C.K., Michael Peña, Alessandro Nivola, Elisabeth Rohm, Dawn Olivieri, Colleen Camp, Anthony Zerbe, David Boston, Erica McDermott, Adrian Martinez e Thomas Matthews. Nelle nostre sale da giorno 1 gennaio 2014.