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I migliori e i peggiori film del 2013 secondo Cineblog

Per l’ultimo dell’anno Cineblog chiama a raccolta i propri redattori per decretare quali siano stati i film migliori e quali i peggiori del 2013. Quali dunque i titoli che più ci hanno colpito, nel bene e nel male?

pubblicato 31 Dicembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 05:57

Ci siamo. Inesorabile, come ogni anno, anche i redattori di Cineblog propongono ciò che per ciascuno di noi è stato il meglio ed il peggio di questi ultimi dodici mesi al cinema. Precisazione d’obbligo, perché le liste che trovate nelle pagine che seguono si attengono scrupolosamente a quanto uscito nelle nostre sale. Pazienza dunque per tutta una serie di titoli che magari su queste pagine sono stati recensiti ma che verranno distribuiti il prossimo anno o forse mai.

Un 2013 a conti fatti pregno, denso di materiale interessante e su cui speculare a man bassa. Preferenze, le nostre, non poi così dissimili salvo qualche eccezione. Espressione, più che di una certa uniformità di giudizio e sensibilità, di un’annata che ha scelto e consacrato quasi da subito i suoi idoli e le sue bandiere. E come sempre trattasi di un gioco, di uno stimolante esercizio per noi che abbiamo dovuto stipare un così ricco repertorio in così poche posizioni.

Solo procedendo nella compilazione, infatti, ci siamo resi conto di quanto fosse arduo dover omettere un titolo a beneficio di un altro o viceversa; situazione che mai come quest’anno ci ha messo così tanto in difficoltà. Meglio per noi, in qualità di spettatori, meglio per il cinema che nonostante tutto si congeda da questo 2013 positivamente, in attesa di un imminente 2014 che promette altri dodici accattivanti mesi.

FEDERICO

IL MEGLIO

1) Gravity: pura esperienza cinematografica. Indelebile e sinceramente incredibile. C’è da capire come Cuaron sia riuscito nell’impresa. Domande senza risposte.
2) La Grande Bellezza: tristemente meraviglioso. Come fotografare il lento declino di un Paese inarrivabile dal punto di vista storico ed estetico eppure paurosamente sprofondato nell’ignoranza, tanto sociale quanto culturale e politica, nel giro di un miserabile ventennio.
3) La vita di Adele: l’amore omosessuale in tutte le sue sfaccettature. Che non lo rendono affatto differente da quello eterosessuale, tra difficoltà, compromessi e dolori.
4) Blue Jasmine: il miglior Woody degli anni 2000. Cinico, con svolte noir, un finale drammaticamente cupo e una Cate Blanchett mastodontica.
5) Django Unchained: Quentin Tarantino all’ennesima potenza. L’ennesima dimostrazione di un genio cinematografico.
6) Noi siamo infinito: sorprendente alchimia recitativa, per un titolo inaspettatamente sottovalutato. L’amore adolscenziale del 2013.
7) Rush: il miglior Ron Howard di sempre.
8) Frozen – Il regno di ghiaccio: il tanto atteso e al tempo stesso temuto ritorno alla magica Disney della nostra infanzia. Tecnicamente ineccepibile.
9) Stoker ex-aequo No – I giorni dell’arcobaleno: inspiegabilmente snobbato il primo, storicamente e politicamente pregno il secondo. Era doveroso trovare loro uno spazio all’interno di questa Top10.
10) L’Evocazione ex-aequo La notte del giudizio: l’horror che incontra il thriller a tinte sci-fi. Con qualità.

IL PEGGIO

1) Il grande Gatsby: viste le premesse e l’elevato potenziale tra le mani, un film fastidiosamente inutile.
2) Una notte da leoni 3: come distruggere un’ottima e ormai antica intuizione, stuprandola all’infinito.
3) After Earth – Dopo la fine del mondo: Il più incredibile fuoco di paglia della storia di Hollywood. M.Night Shyamalan.
4) World War Z: più che un horror un titolo demenziale. E soprattutto, dove diavolo sono gli zombie?
5) Diana – La storia segreta di Lady D. – Il quinto potere – Jobs: quando il biopic fa rima con ‘sciacquone’.
6) Bling Ring: un solo grido di dolore: aridatece Sofia Coppola.
7) Solo Dio Perdona – Only God Forviges: lo scivolone di Nicolas Winding Refn. Inatteso ma evidente. Capita anche ai migliori.
8) Riddick: una cosa orribile.
9) Hitchcock: cast da urlo, storia pazzesca, personaggi mitologici, eppure film di una mediocrità inaccettabile.
10) Mood Indigo – La schiuma dei giorni: troppo Gondry stroppia. E qui ce n’è talmente tanto da risultare indigesto.

ANDREA LUPO

IL MEGLIO

Les Miserables: quando si dice buona la seconda (opera). Il musical di Schönberg/ Boublil non poteva trovare resa cinematografica migliore grazie a Tom Hooper. Una trasposizione “sporca” e verista, fedele e musicalmente scarna che eleva le imperfezioni del cantato a elemento recitativo. Difficilmente al cinema i musical riescono a squarciare quel velo di artificiosità teatrale per diventare opere cinematograficamente espressive. “Les miserables” invece ci riesce in pieno, emozionando ed infervorando sulle note rivoluzionarie di “Do you hear the people sing?”

Anna Karenina: come fare di una storia arcinota il pretesto per una messa in scena che gioca con lo stesso concetto di finzione. Anna Karenina non è solo cinema teatrale ma teatro in cui va in scena il cinema. Wright sfrutta tutte le infinite possibilità che il proscenio gli offre anche in termini di elissi temporali e scarti fra un luogo e l’altro e vince la difficile sfida. Una sperimentazione che esalta il tripudio visivo dell’ambientazione e dei costumi e che riesce a tenere a bada le smorfie (sempre in agguato) della pur brava Knightley.

Le streghe di Salem: per chi scrive semplicemente il miglior horror degli ultimi anni. Perché nell’arco di due ore scarse di tesa e raffinata narrazione si evocano senza incertezze la paranoia degli anni ’70, le impalcature narrative di Carpenter e l’iconoclastia di Jodorowsky (cioè il meglio). La composizione dell’inquadratura è sorprendentemente matura, così come l’utilizzo (straniante) delle musiche. Un incubo fuori dai ritmi e dalle mode dell’horror imperante, attraversato da momenti di sublime visionarietà. Fino ad oggi il capolavoro di Zombie.

Dietro i candelabri: un horror mascherato da biografia sentimentale, o un melò venato d’orrore se preferite. Uno dei migliori Soderbergh da dieci anni a questa parte, ma anche un film che oscilla con ammirevole equilibrio fra misura ed eccesso. Proprio come il suo protagonista Liberace, diviso tra ostentazione divertita dinanzi al pubblico e razionale (p)ossessione nel privato. La storia di un Frankenstein moderno rivisitata all’epoca dello show-biz, con l’Aids a chiudere il sipario.

Solo Dio perdona: dopo quello silente di Rob Zombie ecco il secondo omaggio, stavolta esplicito (anche per la dedica finale), al cinema di Alejandro Jodorowsky. Refn gira un “Drive” ancor più in acido, rischioso il doppio e qua e là metaforico. Un noir dilatatissimo che sfida i nervi dello spettatore comune ma eccita sotto il profilo cinefilo. Doveva incontrare almeno il favore dei critici a Cannes ma non è accaduto. Si è dovuto accontentare di pochi spettatori estasiati.

La grande bellezza: motivi per cui amo La grande bellezza non sono ascrivibili al suo proporsi come specchio dell’Italia di oggi (non trovo che questa critica esista realmente nel film), ma sono squisitamente cinematografici. Perché Sorrentino sa filmare la decadenza con sontuosa eleganza, preoccupandosi più dell’effetto da suscitare che del messaggio da veicolare (la festa iniziale è una coreografia di corpi imperfetti che stordisce e conquista così come la carrellata dentro i palazzi nobiliari di Roma). Imperfetto, ambizioso e smisurato ma di sicuro grandissimo cinema.

L’evocazione – The conjuring: incredibile che l’horror della maturità per James Wan sia rappresentato da un film prevedibile dalla prima all’ultima scena. Lo spettatore ne è perfettamente consapevole eppure ne resta sedotto lo stesso. Perché poi ci importa davvero tanto essere sorpresi da un colpo di scena? Regia classica e ammirevole nello svolgimento dei differenti binari narrativi (le due vicende destinate a convergere ), magari un po’ impacciata nel dosare le apparizioni ectoplasmatiche. Ma il tono resta quello da cinema adulto ed il vintage si rivela essere, per fortuna, autentico leit-motiv ispiratore e non semplice corredo estetico.

Venere in pelliccia: Polanski torna grande con un film piccolo, tratto da un lavoro teatrale di appena 110 pagine. Non si vedeva una regia così ispirata e un film così intensamente polanskiano dai tempi di da Luna di Fiele. Grazie a Sacher-Masoch e al testo di David Ives il regista a 80 anni (lucidissimi) mette in scena se stesso e rappresenta il suo bisogno di essere dominato dalla cinepresa prima ancora che dalla carne. Seigneur e Amalric non sono solo da ammirare ma da incorniciare.

Blue Jasmine: grandissimo Woody! Solo lui poteva ridurre l’austera dama Galadriel a un fascio di nervi, ipocrisie e soliloqui degni della sua galleria di nevrotiche. Blue Jasmine è un film che volteggia leggero sui territori consueti della commedia alleniana ma che alla fine ha il coraggio di atterrare su una pozza di acqua fetida (la follia). Uno sguardo così cinico non si vedeva dai tempi di Match Point.

Still life: Still life ovvero “natura morta” se ci si attiene alla traduzione letterale. “Morte” come quella solitaria che accompagna tutti i signor nessuno dei quali si occupa John May, burocrate con l’anima che allestisce per loro funerali e compone toccanti elegie funebri. “Natura” intesa come paesaggio immobile ma pulsante al suo interno di vita, proprio come il suo archetipico protagonista. Un delicato inno alla vita mascherato da funerale. Il più toccante dono di Natale per chiudere in bellezza questo 2013.

IL PEGGIO

Die Hard – Un buon giorno per morire: action inutile realizzato solo per far cassa nell’appetitoso mercato russo. Doveva essere un flop e invece ha incassato più di “Looper”. Inoltre ha rischiato di oscurare la memoria dei primi due ottimi Die Hard. E questo non si può perdonare nemmeno a Willis.

Un weekend da bamboccioni 2: chi l’ha detto che solo gli italiani sanno fare commedie scadenti e inutilmente volgari? Ecco il “buon” esempio americano di sequel non necessario di un altrettanto inutile primo capitolo (e scusate il giro di parole). Chi aveva iniziato ad apprezzare Sandler per il folle “Zohan” si sta già ricredendo.

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe: CGI fasulla, ritmo da action scaduto, attori (specialmente Renner) buttati e una sceneggiatura che insegna come “non” si dovrebbe fare cinema. Talmente sfacciato con quel suo innesto (insensato) di elementi moderni nel contesto classico che a un certo punto ti aspetti che i protagonisti escano un tablet…

Comic Movie: come sprecare ingredienti di prima scelta (tutto il “colpevole” cast che ha detto sì) per far cucinare un bambino di due anni. Perché di questo si tratta. Il risultato sono cose che noi umani non dovremmo nemmeno immaginare (Hugh Jackman con lo scroto al collo)

Universitari: qualcuno tagli definitivamente i fondi a Moccia e lo riconduca alla realtà . Perché far investire soldi solo per soddisfare il proprio onanismo cinematografico (o illudersi di fermare l’andropausa che avanza) è davvero troppo anche per un produttore.

Il cacciatore di donne: un thriller televisivo che tiene in tensione davvero. O, meglio, che tiene in tensione l’espressività di Nicholas Cage, congelata come da ambientazione (l’Alaska) e non da copione. La memoria di tutte le povere vittime del serial killer di Anchorage meritava di meglio.

Fuga di cervelli: cervelli in fuga dentro e fuori lo schermo alla ricerca di un genere (il college movie) che in Italia non è mai esistito. Ma se è stato un successo significa solo che molti di quei “cervelli” evidentemente non sono mai fuggiti dall’Italia. Ci attenderà un sequel, ahimè?

Un fantastico via vai: di fantastico c’è solo il modo in cui Pieraccioni riesce ad incassare ancora proponendo sempre e solo se stesso. Tanto che, dopo “Il Ciclone”, il suo cinema non sembra altro che un unico film ad intervalli regolari di due anni. Neanche un ciclo sarebbe più puntuale.

Colpi di fortuna: “Ciao, sono il cinepanettone! Se pensavate di esservi liberati di me beh, vi stavate sbagliando di grosso. In realtà mi ero solo ben camuffato e anche un po’ imborghesito. La cura da qualche anno prevede un “no” categorico a tette & culi, peti & party, oltre a una bella iniezione di volti televisivi e rassicuranti (giusto per piacere anche alla critica). Non temete però, perché la stupidità resta quella di sempre…’ A fro***ii!!!”

GABRIELE CAPOLINO

IL MEGLIO

Premessa: credo che il 2013 cinematografico sia stato ottimo. E purtroppo mai come quest’anno trovo quasi inutile fare una classifica solo dei film distribuiti in Italia. I festival fanno un circuito distributivo a sé, e Internet permette in diversi modi di visionare opere recenti che altrimenti in sala non arriverebbero mai. Però il “gioco” è così, in fondo mi piace e ne faccio sempre parte volentieri: spero che i lettori prendano queste classifiche come possibilità per futuri recuperi. I primi due posti sono da considerarsi ex-aequo. La menzione l’assegno ogni anno ad un film meritevole di Top 10 ma arrivato con troppo ritardo da noi rispetto al suo anno di produzione.

01. Holy Motors: il cinema come matrioska di sorprese e riflessioni sul suo “stato”. Uno di quei rari film che segnano un decennio. Libero e folle con uno, dieci, cento perché.
01. La vita di Adele: dicono che Kechiche manipoli il pubblico con stile verosimile costruito a tavolino. E invece il pubblico lo rispetta tantissimo. Adèle folgorazione dell’anno.
03. The Act of Killing: il “documento” più disturbante dell’anno. Non saprei neanche bene da dove iniziare per scriverne: so solo che la mezz’ora finale mi ha sconvolto.
04. No – I giorni dell’arcobaleno : Larrain regista politico serio e ormai imprescindibile. Con un’idea di cinema giusta, senza sconti, persino molto utile.
05. The Master: tra i titoli più difficili dell’anno. L’accusa principale è quella di una lentezza eccessiva e fredda: sotto però io ci trovo una tristezza infinita che persino mi commuove.
06. Zero Dark Thirty: America oggi. La Bigelow non si tira indietro di fronte a niente, e va oltre l’ambiguità. Scava direttamente nel buio, che oggi fa una paura fottuta.
07. Lo sconosciuto del lago: una cosa mai vista prima. Thriller queer in cui non ci sono più sovrastrutture: solo la libertà di cedere ed inseguire i propri istinti e le proprie pulsioni.
08. Re della terra selvaggia: quando il realismo distilla la “magia”, con un’energia feroce e potentissima. Crea un mondo tutto suo, ma ha il cuore pulsante della vita.
09. Spring Breakers: l’elegia pop di Korine sulla American youth di oggi. Chi lo scambia per un semplice J’accuse non l’ha capito. Casting geniale, con James Franco incredibile mattatore.
10. Stop the Pounding Heart: tra doc e fiction, un’opera che pare costruirsi da sé. Incantevole percorso femminile in un contesto fuori dal tempo. Minervini personale sorpresa del 2013.
Menzione: Confessions: fa tremare le gambe. Stile saturo, pieno di rallenti e musica bellissima, al servizio di un’atmosfera straniante e di una storia spietata e sorprendente.

Da 11 a 15, meritevoli di Top 10 e lasciati fuori con estremo dolore (in ordine): La Grande Bellezza, Blue Jasmine, Gravity, Il Passato, Come un tuono.

IL PEGGIO

01. Colpi di fortuna: c’è ancora bisogno di aggiungere altro?
02. Rec 3 / La casa: ma c’è davvero qualcuno a cui gliene frega qualcosa? Qualcuno che si diverte, che ha paura, che trova un’utilità in ‘sti sommi esempi di prequel e remake?
03. L’uomo coi pugni di ferro: colonizzazione di un immaginario senza alcuna cognizione di causa e talento.
04. L’intrepido: quel tipo di film che inizia a non funzionare già dai primi minuti. E poi lo trovo pure un po’ immorale.
05. Se sposti un posto a tavola: quella tipica commedia francese che mi provoca prurito ogni due secondi.
06. Un castello in Italia: quella tipica commedia (“autoriale”) francese che mi provoca prurito ogni due secondi.
07. Alex Cross: il prodotto straight-to-dvd (ma anche straight-to-tv) che ruba spazio a qualcosa di decente nelle nostre povere sale senza alcun motivo.
08. L’uomo d’acciaio: la delusione dell’anno, e mi sono già espresso abbastanza.
09. World War Z: complimenti vivissimi a tutta quella fetta di critica che l’ha valutato in modo positivo.
10. In Trance: quando Boyle decide che deve svaccare… lo fa proprio male.
Menzione: Il Lato Positivo: non lo ritengo un brutto film tout court, per carità… ma quanto è sopravvalutato David O. Russell. E aspettate il “meraviglioso” American Hustle…

CUT-TV’S

IL MEGLIO

Django Unchained di Quentin Tarantino: un grande ritorno alle frontiere del genere, capace di cavalcare l’onda, il botteghino e le polemiche, come solo Quentin da fare.

Gravity di Alfonso Cuaron: Un ritorno che manda in orbita, tocca corde nascoste, e raggiunge vette inaspettate, lanciato tra gli astri dello spazio, quelli del cinema, e la fantascienza capace di sorprendere la realtà, sbancare il box office, e commuovere anche gli scettici.

Holy Motors di Leos Carax: uno, nessuno e centomila di questi film, per perdersi nel labirinto del tempo e ritrovare quello che non sapevamo di aver perduto.

La grande bellezza di Paolo Sorrentino: Sorrentino apre le danze sullo squallore della festa, la bellezza eterna che uccide, i fantasmi che illudono, le maschere che deludono, lo splendore di un Dolce Vita che si affaccia sul vuoto e le sfumature sublimi dell’esistenza. Qualcosa che scatena amore, odio, mai indifferenza.

La vita di Adele di Abdel Kechiche: folgorante come le emozioni che non controlli, travolgente come il profumo caldo, profondo e reale della vita, che scorre nonostante tutto e tutti, oltre il corpo, dentro i sensi, proteso all’amore.

Spring Breakers di Harmony Korine: L’incubo ‘metanfetaminico’ dell’abisso Pop, in diretta sul canale della festa, ad alto tasso di ostentazione, provocazione, eiaculazione.

Stoker di Park Chan-wook: un viaggio alla scoperta di se e della propria natura, avvincente dall’inizio alla fine, morbosamente seducente non solo nella doppia esecuzione al piano, un thriller al ritmo con sguardi e omicidi, i barlumi di follia e la spaventosa verità.

Venere in pelliccia di Roman Polanski: dal romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch, al malizioso ritorno dietro la macchina da presa di Roman Polanski, passando per la pièce teatrale di David Ives, portata sul grande schermo con il claustrofobico, provocante incontro tra universi agli antipodi, il 2013 è tornato a scaldarsi con il ritratto raffinato e folgorante della Venere che padroneggia l’arte della seduzione, giocata con l’eterno incontro scontro dei sessi, dei ruoli, di dominazione/sottomissione.

Tutti i ritorni al cinema: recuperati, restaurati, invecchiati come il buon vino, da Dial M for Murder di Hitchcock a Il Gattopardo di Luchini Vosconti, da Roma città aperta di Roberto Rossellini, al Frankenstein Junior di Mel Brooks, con Risate di Gioia di Mario Monicelli come antidoto ai cinepanettoni.

IL PEGGIO

Un fantastico via vai di Leonardo Pieraccioni: ma dove e soprattutto perché!!!! Perché Pieracccioni fa lo stesso film da anni e la gente lo va a vedere?

Fuga di cervelli di Paolo Ruffini: è evidente che quelli buoni sono scappati tutti dal bel paese, meno male che ci pensa quello abi-norme a ri-portate un cult sul grande schermo, in alta risoluzione restaurata.

Die Hard – Un buon giorno per morire di John Moore aka Die Hard 5: detto e fatto. Tra effettoni action e già visto, quello che manca è proprio il Bruce Willis del passato.

Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn: mentre il film si vendica punendo lo spettatore lentamente, molto lentamente… zzzzz

The Canyons di Paul Schrader: l’occasione sprecata di una scrittura audace, una campagna su Kickstarter, un regista indipendente, una Lohan pronta a tutto e il James Deen del porno, peccato!

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe di Tommy Wirkola: niente biscottino per i due fratellini attrezzati per una guerra deludente, che rischia di uccidere solo una bella fiaba oscura.

Scary Movie 5 di Malcolm D. Lee: stessa formula, sempre più fiacca, sempre meno divertente.

The Lone Ranger di Gore Verbinski: neanche un tonto ci cascherebbe!

Hates – House at the End of the Street di Mark Tonderai : il mercato delle case alla fine della strada è in crisi, l’horror non spaventa, il thriller non intriga, e con il battito d’ali dell’uccello speri volino via anche un po’ di banalità, invece…

PIETRO

IL MEGLIO

1. Django Unchained: Tarantino rivisita lo spaghetti-western e lo fa con la sua consueta passione da cinefilo prima che da regista di culto. Il regista va oltre l’omaggio viscerale dando personalità e nuovo vigore ad un filone che ha fatto la storia del cinema di genere e in particolare di quello italiano.

2. L’evocazione – The Conjuring: intendiamoci il regista James Wan non inventa nulla e noi non siamo tra quelli che gridano al miracolo, ma da appassionati di horror non possiamo non apprezzare l’abilità nel suo saccheggiare e riproporre con astuzia e passione il miglior cinema horror anni ’70 e ’80.

3. Dietro i candelabri: performance attoriali stratosferiche con un Michael Douglas da Oscar. Un film tanto rischioso quanto coraggioso e siamo davvero felici che sia arrivato nelle nostre sale.

4. Frozen – Il regno di ghiaccio: la Disney regala poesia e vigore alla iper-tecnologica CG e non fa rimpiangere l’animazione tradizionale. La regina delle nevi svetta sul cast virtuale ed emoziona con il suo tormento, il resto lo fanno i divertenti personaggi di contorno, le musiche e una messinscena come sempre di altissimo profilo.

5. Hunger Games – La ragazza di fuoco: in attesa di “Divergent”, Katniss Everdeen conferma il suo dominio post-Twilight sul prolifico filone “Young Adult” sconfiggendo su tutta la linea i concorrenti “Beautiful Creatures” (pessimo), “The Host” (soporifero), “Warm Bodies” (no comment) e “Shadowhunters” (il migliore tra quelli citati).

6. Pacific Rim: la testosteronica apocalisse sci-fi di Guillermo del Toro ha risvegliato il nostro “orgoglio nerd”, regalandoci un coinvolgente mix tra la tecnologia degli odierni “Transformers” cinematografici e la nostalgia dei robottoni nipponici e mostroni giapponesi evitando con cura l’effetto “videogame”, sempre in agguato in operazioni come questa.

7. La fine del mondo: La “Trilogia del Cornetto” si chiude in grande stile con un film che eguaglia il precedent “Hot Fuzz” e non fa rimpiangere “La notte dei morti dementi” che resta il migliore della serie e la migliore parodia del filone zombie in circolazione. Il terzetto Frost/Pegg/Wright ci regala una spassosa “invasione degli ultracorpi” con un finale all’insegna del post-apocalittico che speriamo ci regali un nuovo capitolo.

8. Lo Hobbit – La desolazione di Smaug: Peter Jackson dopo un primo capitolo di “riscaldamento” entra nel vivo e confeziona un’avventura coinvolgente, regalando al classico di Tolkien una trasposizione con nuovi personaggi e qualche libertà creativa, ma sempre nel pieno rispetto dell’epica fantasy del più grande autore del genere.

9. L’uomo d’acciaio: Zack Snyder con il suo cinema muscolare e di grande impatto visivo regala a Superman un interprete perfetto e una nuova veste next generation lontana anni luce da quella citazionista di Bryan Singer e quella “camp” di Richard Donner. Un riavvio di franchise di tutto rispetto, vedremo se il sequel annunciato sarà all’altezza dell’arduo compito.

10. Machete Kills: Robert Rodriguez preme l’accelleratore sul farsesco confezionando un sequel fumettoso ed efferato, dedicato a chi il cinema di genere lo vive come viscerale passione lontano da snobbismi e clichè finto-autorali.

IL PEGGIO

1. Colpi di fortuna: la macchietta è servita e se la volgarità resta nei ranghi “tutto il resto è noia”.

2. Beautiful Creatures – La sedicesima luna: siamo certi che la serie di libri non può essere così banale e irritante come questa trasposizione che ci ha fatto rimpiangere addirittura “Twilight”, serie quest’ulrima che almeno aveva dalla sua un paio di protagonisti carismatici.

3. Comic Movie: I realizzatori di questo film potrebbero scrivere un manuale: “Come sfruttare malamente un cast stellare e non imbroccare nanche una gag”.

4. Ghost Movie: parodia degli horror found footage peggiore dei primi “Scary Movie”, forse paragonabile per inutilità comica solo al tremebondo “Horror Movie” (una delle peggiori parodie mai girate). Operazione inutile, ma così poco costosa che avrà un sequel.

5. Nero infinito: un disastro su tutta la linea, il cinema di genere non è fiction televisiva e operazioni come questa fanno solo male al cinema di genere italiano e ad una sua possibile rinascita (si, siamo degli inguaribili ottimisti).

6. Non aprite quella porta 3D: film inutile nato per sfruttare il formato 3D e senza un vero scopo ultimo, se non quelo di far cassa.

7. Percy Jackson e il mare dei mostri: cambio di regia (Thor Freudenthal al posto di Chris Columbus) e la serie perde colpi, l’ironia e il tocco squisitamente dark dell’ottimo primo film vanno a farsi benedire, gli effetti speciali e l’azione frenetica prendono il sopravvento e il film perde vigore diventando materia prima da fan.

8. Scary Movie 5: la serie perde la sua protagonista (la brava Anna Faris) e torna alle origini con una comicità truce alla “fratelli Wayans”, che non ha nulla a che vedere con quella della premiata ditta “Zucker/Abrahams”(L’aereo più pazzo del mondo, Una pallottola spuntata) che erano al timone nei capitoli 3 e 4.

9. White House Down – Sotto assedio: ironico e fracassone quanto basta e con un paio di protagonisti d talento, ma il film non riesce a decollare al contrario del buon “Attacco al potere – Olympus has Fallen” con Gerard Butler e di certo non aiuta un finale che sembra la parodia di un film di Michael Bay (vedi la ragazzina che sventola la bandiera).

10. L’ultima posizione la dedichiamo a un paio di cose che proprio non abbiamo digerito durante l’anno: 1) Il modo indegno in cui è stato trattato il Mandarino in Iron Man 3 che meriterebbe la fondazione di una associazione per la tutela delle nemesi da fumetto; 2) Lo zombie innamorato di Warm Bodies che alla stregua dei vampiri “luccicanti” di Twilight se ne frega bellamente del rigor mortis e della maleodorante decomposizione in atto trasformando l’icona horror di Romero in una macchietta da romanzo rosa.

ANTONIO MARIA ABATE

Come in parte precisato in apertura, il resoconto di quest’anno ci ha messo a dura prova. Trovo sempre goffo e inappropriato citare qui titoli che avrebbero meritato un posto e che invece non ci sono: mi pare pretestuoso integrare i motivi per cui uno o più film non compaiono alle ragioni per cui altri sono stati menzionati. È altresì chiaro che di preferenze si tratta, almeno nel caso di chi scrive: non intendo perciò riassumere il “vero meglio” ed il “vero peggio” di questo 2013. Più modestamente, mi limito a sottoporre ciò che più mi ha colpito (in un senso o nell’altro) in questi dodici mesi, conscio del limite imperativo inerente ai film distribuiti in Italia e del fatto che non si tratta di una mera classifica: non a caso non trovate numeri accanto a ciascun titolo, perché operare un’ulteriore scrematura continuo a reputarlo uno sforzo superfluo se non proprio inutile. O che per lo meno non esercita alcuna attrattiva sul sottoscritto.

IL MEGLIO

Spring Brakers: al di là di qualsivoglia considerazione inerente alle intenzioni di Korine, è parso immediatamente chiaro il disincanto con cui lo stesso si è approcciato alla questione. Inorriditi da una seppur plausibile deriva moralista, molti hanno preferito vedere in Spring Breakers un inutile carrozzone al cui interno troviamo buona parte di ciò che più sta a cuore a certa gioventù americana. A me pare invece che a dispetto di un Alien esagerato e superlativo, di un contesto effettivamente costruito e quant’altro, Korine riesca a filtrare una mostruosa fetta di solido realismo. E ci riesce non facendo leva sui meri fatti, bensì attingendo a quell’innegabile visionarietà che lo contraddistingue e che non a caso contribuisce in maniera determinante a consegnarci uno dei titoli in assoluto più rilevanti degli ultimi anni.

Gravity: opera tanto distante quanto totalizzante, a Cuarón tutto si può dire tranne di non essere riuscito a creare qualcosa di significativo. L’esperienza Gravity poco si presta alle chiacchiere perché va provata, e nelle migliori condizioni possibili. Con esso ad elevarsi non è solo un genere (la fantascienza) ma il medium tutto, che d’ora in avanti mette con le spalle al muro tutti coloro che fino ad ora, pur avendo a disposizione i mezzi adatti, hanno preferito la tranquillità alla storia. Storia che invece Gravity si è guadagnata, e a suon di vertigini.

Holy Motors: alla fine hai davvero l’impressione che Leos Carax tutto ciò che aveva da dire l’abbia detto. E la sfida va accettata senza riserve, donandosi a quelle rocambolesche 24 ore che sono una vita, un secolo. T’accarezza l’idea di dare un nome o anche solo un volto opaco a certi passaggi, ma quando le limousine parlano ti rendi conto che l’intento di Carax era proprio quello di seppellire tutto all’interno di quella fossa comune che è uno dei film più ambiziosi, smodati e sopra le righe degli ultimi anni.

Jiro e l’arte del sushi: l’impatto fu devastante. Non col film, col trailer. Da quando per la rete cominciarono a girare le prime sequenze di questo gioiellino di David Gelb, la speranza divenne che l’intero documentario valesse anche solo la metà di quelle poche immagini. Un lavoro sobrio, che procede per sottrazione, in linea con l’argomento di cui tratta. Jiro Ono, suo malgrado, è un personaggio dal carisma innegabile anche davanti alla macchina da presa, alla quale si presta per mostrare cosa significa una vita spesa bene. Contro tutto e contro tutti. Testimonianza ne è la perizia con cui Gelb confeziona il tutto, e che dell’approccio spiccatamente minimale fa la sua virtù, colpendo per l’efficacia con cui certa semplicità riesce a toccare lo spirito. Rigenerante.

Solo Dio perdona: tutto sta nella mezz’ora successiva. Se quel «mah…» a caldo persiste, ci si tolga dalla testa che l’ultima fatica di Refn possa riguadagnare terreno alla lunga. Anzi. Glaciale nello svolgimento così come nelle conclusioni, che nonostante tutto arrivano sebbene a servizio di uno stile la cui predominanza, lungi dallo svilire l’intera portata, semmai la impreziosisce. Pazienza se il rischio è quello di appesantire un po’ il tutto. L’eleganza non è mai a buon mercato e comporta sempre dei sacrifici.

Django Unchained: Tarantino maneggia un argomento sensibile e nonostante ciò diverte, intrattiene, addirittura allieta. Certo, la sua abilità sta anche nel circondarsi di collaboratori con i cosiddetti, perciò quando guardi alla prova di Leonardo DiCaprio in formato villain puoi star certo che il prezzo del biglietto è già stato ampiamente coperto. Non meno notevole Waltz ed in generale tutta l’impalcatura di un lavoro talmente trasversale da mettere d’accordo un po’ tutti.

No – I colori dell’arcobaleno: con quest’opera Pablo Larraín ha fatto parecchio parlare di sé, e meritatamente. Più di quanto non fosse riuscito con Tony Manero e Post Mortem, in relazione ai quali No rappresenta la piena consacrazione del regista cileno. Sagace, mai banale, stiloso non solo per quanto attiene al mood così sfrenatamente anni ’80, bensì anche per tutta una serie di piccole/grandi scelte che ne smussano quei contorni così marcatamente politici. Tanto che alla fine va precisato che si tratta di un film che parla di politica, non di un film politico.

Confessions: Tetsuya Nakashima è un regista estremo, come in fondo lo sono parecchi dalle sue parti. La differenza però tra lui e – che so? – un Takashi Miike resta tuttavia abissale. Quel marchio di fabbrica che eppure emerge in Confessions resta sproporzionato ma non incide più di tanto. Nakashima ha sì il merito di spingere fino all’inverosimile il tutto, arrestandosi però sulla soglia dell’assurdo, che in fondo non tocca nemmeno. Eppure quella girandola di eventi e situazioni così ben girati e ben descritti colpisce là dove serve e ci lascia tramortiti per un bel quarto d’ora. Dopodiché si vive del pregiato retrogusto.

Blue Jasmine: volevate Woody Allen? Eccovi Woody Allen. Pure meglio di Woody Allen. L’estemporanea svolta del regista newyorkese non stupisce ma lascia comunque narcotizzati. In un impeto di mal sopportazione, quasi avesse lanciato un grido risolutorio all’indirizzo di tutti coloro che non ne potevano più di fiabe e storielle, Allen lascia correre dritto in faccia questo mattone. Sì perché in fondo uscire da Blue Jasmine è un po’ come essersi fatto prendere a sassate per una buona ora e mezza, salvo il piacevole ricordo di una protagonista eccezionale che rimane sulla pelle come i lividi poco sopra evocati.

The Master: più di un anno fa da Venezia fummo chiari: aspettiamo che cresca. Ed è cresciuto. Ovviamente tale operazione si è consumata internamente a chi scrive, dato che da subito realizzai la forza del film di Anderson, salvo non riuscire inizialmente a penetrare sino al suo nucleo. C’è voluto del tempo ma alla fine è andata. PTA ha oramai un suo stile consolidato, oltremodo riconoscibile e confermato da questa sua ultima fatica; inutile prendersela per dei ritmi così cadenzati, per lo sforzo talvolta immane nel metabolizzare questo suo modo di raccontare, così originale e al tempo stesso tutt’altro che conciliante. Il punto è che nulla è lasciato al caso in The Master, e se ancora a distanza di quindici mesi siamo lì a ragionarci sopra vuol dire che lo smarrimento iniziale rappresentava semplicemente lo scotto da pagare per accedere a tale esigente profondità.

IL PEGGIO

Una notte da leoni 3: non bastasse il secondo a vanificare il primo, fantastico esperimento di Todd Phillips, arriva questo terzo. Che non aggiunge nulla, anzi semmai toglie. A riprova del fatto, già certo dopo il primo sequel, che quella formula andava più che bene una volta ma non di più.

Quello che so sull’amore: il peggiore dei tre girati negli States da Muccino. Con quel cast non dico che bisogna fare necessariamente faville, ma almeno restituire qualcosa di interessante era d’obbligo. Ed invece ecco il piattume di una storia che tanto più si vuole edificante quanto più appare impacciata.

L’uomo coi pugni di ferro: il pastiche di RZA è troppo scollato, inutilmente denso. Da quando si è sparsa la voce che Tarantino è un «copione» ad alcuni sembra che basti piluccare qua e là da ciò che più aggrada per dare vita a qualcosa di degno. Non è questo il caso di The Man with the Iron Fists, quale che sia stato l’impegno di Eli Roth.

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe: l’esempio più emblematico circa l’allontanamento della nostra epoca dalle fiabe, voluto ed incoraggiato da certa scellerata pedagogia. Siamo stufi di sentirci ripetere che, in fondo, questi sono solo rivisitazioni. Che significa? Noi le chiamiamo col loro nome, ossia banalizzazioni. Estreme, prive di estro e idee degne di tale definizione. Qui Hansel è diabetico. Fate vobis.

Universitari – Molto più che amici: Moccia tenta un ulteriore esperimento rivolgendosi a quel pubblico cresciuto a pane e «Io e te tre metri sopra il cielo». L’esito è palesemente mediocre, posticcio e talmente banale da lasciare indifferenti nel migliore dei casi.

Colpi di fortuna: l’apice di un processo che, come ben sappiamo, parte da lontano. L’ultimo film di Neri Parenti non sta in piedi da qualunque prospettiva lo si osservi, finendo addirittura col peggiorare una formula già bella che scaduta e che qui appare ulteriormente usurata.

Fuga di cervelli: concediamo a Paolo Ruffini l’attenuante di non essersi preso sul serio nemmeno per un secondo. Nondimeno il suo resta un esordio estremamente debole, troppo “furbo” in quel suo limitarsi ad incollare con dello scotch di pessima qualità una serie di sketch ed uscite di per sé già discutibili.

Broken City: all’interno di questa lista questo è il flop per eccellenza, ossia deludente a dispetto delle premesse. Non stavamo al varco in attesa di un capolavoro, ma da un film di questo tipo non ti aspetti davvero una così palese mancanza di verve, uno svolgimento così raffazzonato. Elementi che invece ahinoi contraddistinguono il film di Hughes, che da rappresentazione potenzialmente interessante si risolve in pseudo-thriller politico più che dimenticabile.

Two Mothers: se l’intento è quello di fare scandalo è bene che ci si premuri anzitutto di ragionare su come metterlo in scena, questo scandalo. Perché a leggere la sinossi di certo non si resta indifferenti: due amiche di lunga data intraprendono delle relazioni ciascuna col figlio dell’altra. Peccato poi che la totale gratuità di questo incipit si imponga prepotentemente alla luce di una narrazione e di una rappresentazione che più banale e scontata non si può, con tanto di fotografia sbrilluccicante a sottolineare questa pressoché totale assenza se non di originalità senz’altro di ambizione.

Il futuro: un film a misura di ragazzina in quella fase complessa che precede la definitiva maturazione. Scelta voluta quella di Alicia Scherson, e che dunque pesa a maggior ragione. A cavallo tra dramma e favola, quella di una ragazzina che tenta di evadere da una quotidianità miserabile “prestando” i suoi occhi ad una vecchia gloria di B-movie, oramai cieco. Ma il senso sfugge costantemente, fosse anche quello di mettere in scena il disagio di una ragazza sopraffatta da una realtà incalzante. Con in più una pessima recitazione.