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Salinger – Il mistero del giovane Holden: Recensione in Anteprima

Il personaggio dietro lo scrittore. O lo scrittore dietro il personaggio. Shane Salerno lascia da parte l’approccio prettamente investigativo preferendo quello discorsivo nel tentativo di descrivere più che ricostruire uno degli scrittori più influenti del secolo scorso, ossia J. D. Salinger

pubblicato 8 Maggio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 01:55

Quella di J. D. Salinger, ancora oggi, a quattro anni dalla sua morte, sembra ancora una storia tutta da scrivere. Chi ha un po’ di familiarità col personaggio (per quanto se ne possa avere) sa che prima di quel 27 gennaio 2010 c’è una voragine che copre poco più di cinquant’anni. Cinque decenni in cui uno degli scrittori più influenti del secolo scorso sembra aver sospeso la propria esistenza su questa terra per un fine più alto. O forse semplicemente per insofferenza.

Per accostarci al personaggio Salinger, limitatamente a questo documentario diretto da Shane Salerno, ci pare opportuno partire da una frase che con sprezzo lo scrittore americano rivolse ad una delle sue compagne, la non esattamente sconosciuta Joyce Maynard: «il tuo problema è che ami troppo il mondo». La Maynard riferisce tutto ciò in un’intervista rilasciata al regista con enfasi, calcando il tono su quel ricordo che inevitabilmente la colpì come un colpo di spada in pieno petto. Cosa significa il «mondo» per Salinger?

La storia di quest’ultimo è in fondo la stessa del protagonista del romanzo che lo ha reso celebre, ossia Il giovane Holden; come acutamente fa notare uno degli intervistati nel corso del documentario, nell’ambito della Letteratura americana Salinger è il prodotto della Seconda Guerra Mondiale così come la Guerra Civile sfornò prima Mark Twain e Walt Whitman. Non si scappa. Un’osservazione su cui in fondo si basa il lavoro di Salerno, che nella sua impostazione discorsiva, nient’affatto lineare, saltando da un periodo all’altro con disinvoltura, a più riprese si riaggancia al periodo a quanto pare più buio della vita di Salinger.

Ad un certo punto tocca soffermarsi sull’esperienza dello scrittore newyorkese (perché chi nasce newyorkese muore newyorkese, non importa dove costui abbia trascorso buona parte della propria esistenza) in Europa, durante quella pagina estremamente buia (sotto ogni aspetto) in cui è sprofondato il Vecchio Continente a cavallo tra la fine degli anni ’30 e la metà dei ’40 del ‘900. Lo sbarco in Normandia, storicamente tramandato come un carnaio, sebbene avvolto da un’affascinante epica trionfante, a dire di chi c’è stato altro non fu che l’inizio, nemmeno il più atroce di quell’invasione. Commilitoni di Salinger raccontano di come subito dopo il sanguinoso sbarco cominciarono i veri problemi, riassumibili nella seguente affermazione: tutto ciò che quei giovani avevano appreso all’accademia (o chi per lei) non serviva a nulla.

Soli, stremati, costantemente sul chi va là. È la guerra. Né più né meno. E da quella, come da altre, tanti, troppi, non ritornarono più com’erano prima. Uno stress psicologico in grado di far crollare anche il più temprato, dinanzi ad orrori di varia natura. Ma quello che più incise sulla psiche, e forse pure qualcosa di più, di Salinger fu un episodio in particolare, ovvero l’approdo a Dachau. Pile di corpi ammassati, carbonizzati, o semplicemente fucilati; grandi, piccoli, poco importa. Uno “spettacolo” che trascende popoli e ideologie, e che agli occhi del venticinquenne Jerry s’impose con una violenza ed una potenza indicibili. Ma quello, a sua volta, non fu che l’inizio.

Salinger tratteggia un ragazzo oltremodo confidente, ostinato, la cui massima aspirazione, ben prima dell’arruolamento, era quella di farsi pubblicare sul New Yorker, per lui rivista simbolo. La idolatrava proprio, tanto da riempire la posta dei suoi uffici con un racconto breve dopo l’altro, sapendo che, rifiuto dopo rifiuto, qualcosa sarebbe accaduto. E di delusioni Salinger ne accumulò parecchie in quel periodo: solo nel ’41 riuscì finalmente nel suo intento. Ma i tempi per il Salinger che conosciamo non erano ancora maturi. Poco dopo sarebbe arrivato il fermo desiderio di prender parte alla guerra in Europa, e la sua corsa al successo sembrò arrestarsi.

Niente di più sbagliato. Nell’unica foto ancora esistente di Jerry seduto mentre scrive in una delle campagne attraversate nel corso della missione in Francia, il futuro scrittore è ritratto con in mano una sigaretta e nell’altra una penna: sul tavolo dietro il quale è seduto alcuni fogli sparsi. Sono degli stralci de Il giovane Holden. Uno dei libri più famosi di sempre, nonché tra i più letti ed apprezzati del XX secolo prese corpo lì, in quel luogo in cui i corpi venivano abbattuti, sinonimo di morte anziché vita. Non ci resta dunque che tornare alla fine della guerra, riallacciandoci a quell’inizio della fine poco sopra evocato.

Al suo rimpatrio Salinger trova una società sensibilmente cambiata. Ubriaca, vuota, ricolma di contraddizioni. È il periodo del boom economico, la gente sembra più preoccupata a riempire i loculi più o meno spaziosi in cui vivono di roba – mentre Jerry, sino alla fine, visse sempre spartanamente, circondandosi dell’essenziale. Macchine colorate, vestiti colorati, messe in piega, sorrisi, pure immagini colorate alla televisione a partire da un certo punto. Trrram. La misura era piena.

Il giovane Holden trasuda la profonda insofferenza verso tutto questo, verso ciò che le persone sono diventate ma ancora più verso le varie maschere che si sono fabbricate per dissimulare la follia dilagante. Il poeta, sensibile più di qualunque altra creatura, non può che avvertire il colpo con un’amplificazione lacerante. Il documentario racconta pure del travagliato percorso che portò alla pubblicazione di questo libro “scandaloso”, che nessuno voleva mandare alle stampe se non rimaneggiato. Ma cosa togliere? Nulla! Per Salinger la sola idea di modificare una virgola avrebbe corrisposto ad un ulteriore acutizzarsi di una ferita che ancora lo tormentava. E che più avanti, probabilmente, riversò nella famiglia Glass, i cui personaggi, a dire del diretto interessato, furono la cosa a lui più cara.

Dopo quello stratosferico successo, che contribuì al diffondersi impressionante del nome di Salinger, quest’ultimo dovette sperimentare ciò che a pochi, pochissimi eletti è dato di sperimentare: la vacuità di tale processo. Prima dunque l’uscita di scena, pressoché coeva al periodo di espansione del fenomeno The Catcher in the Rye (titolo originale de Il giovane Holden), poi, quasi venticinque anni dopo, nel 1965, l’interruzione di ogni pubblicazione.

Il lavoro di Salerno ripercorre anche quelli di anni, anzi, specialmente quelli. Anni contraddistinti da immagini, conversazioni o anche solo frasi rubate, sebbene quello di Salinger non si possa definire in tutto e per tutto in un vero e proprio ritiro dal mondo. Altroché. Nel mondo lo scrittore ci sta con tutte le scarpe, informatissimo e super impegnato nell’intrattenere pubbliche relazioni con giornalisti, editori o anche estimatori del suo libro più famoso, che vedevano nel “padre” di Holden Caulfield una sorta di guru spirituale. Senza entrare più di tanto nel merito del romanzo, del suo stile, insomma senza analizzarne in alcun modo il testo – mossa sinceramente condivisibile. Peccando forse un po’ in lunghezza, specie in considerazione della sua chiara accessibilità da parte di un pubblico alquanto vasto.

Salinger racconta questa di storia, basandosi per lo più su ciò che si sa, senza arrischiare chissà quale interpretazione sul perché di un personaggio che rifiutò il successo da principio tanto agognato, preferendogli qualcosa di apparentemente meno invitante: una vita interiore. Come già evidenziato, J. D. Salinger non smise mai di scrivere, anzi, non passò giorno in quelle stanze del suo tempio di Cornish, nel New Hampshire, senza che fosse possibile udire l’inconfondibile rumore di dita che battono sui tasti di una macchina da scrivere. Tra il 2015 ed il 2020 finalmente verranno pubblicati i risultati di quel discreto e riservato lavoro, condotto nell’ombra ma senza posa.

Voto di Antonio: 7

Salinger – Il mistero del giovane Holden (USA, 2013) di Shane Salerno. Con Philip Seymour Hoffman, Edward Norton, John Cusack, Martin Sheen e Tom Wolfe. Nelle nostre sale soltanto martedì 20 maggio.