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Jersey Boys: Recensione in Anteprima del film di Clint Eastwood

Ascesa e discesa di una di una delle band più celebri e al tempo stesso più tormentate di quegli anni, i Four Seasons. Parabola di riscatto parziale, tra fatalismo e note musicali. Clint Eastwood torna al cinema con un film che sembra un musical ma che non lo è

pubblicato 17 Giugno 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 00:46

C’erano tre modi per uscire dal quartiere: entravi nell’esercito e magari finivi ucciso; diventavi mafioso e magari finivi ammazzato… o diventavi famoso. Per noi, erano due su tre.

No, non è un film di Scorsese. Jersey Boys, che da principio è la storia dei celebri Four Seasons, poi trasposta in un più che fortunato musical teatrale, è l’ultimo lavoro di Clint Eastwood. Un Eastwood che tenta di portare sul grande schermo un successo non da poco, confrontandosi con un soggetto di primo acchito alla sua portata. Perché Jersey Boys è resoconto più o meno dettagliato, più o meno incisivo, di una parabola ascendente e discendente come solo nella cosiddetta “terra delle opportunità” potevano vedersene.

Tommy DeVito è uno scavezzacollo del New Jersey che fa entra ed esci dalla prigione. Spavaldo, strafottente, il mondo altro non è che negozio di giocattoli aperto 24 ore su 24 dal quale può prendere ciò che vuole senza curarsi di alcunché. Insomma, il classico delinquentello locale. Con lui c’è Nick, di gran lunga meno carismatico, trascinato da Tommy e con la fedina penale quasi altrettanto pasticciata. Frankie invece… beh, Francesco Castelluccio, in arte Frankie Valli, è un bravo ragazzo. Con in più un talento, che è il canto.

Jersey Boys, come da titolo, è principalmente la storia di questi tre ragazzi, il cui incontro (per niente casuale) con Bob Gaudio ha rappresentato la svolta: di lì a poco sarebbero nati i Four Seasons. Eastwood in fondo è attratto dalla tematica del riscatto che evidentemente giace nelle pieghe di una storia oramai consegnata alla mitologia americana, qualora ve ne fosse una. Un riscatto a metà, a fronte di un’emancipazione dal luogo in cui si è nati e cresciuti (in altre parole, “venuti fuori”) che non è mai totale. Anzi. Il viaggio dalle stalle alle stelle e ritorno di questi quattro ragazzi, ci conferma Eastwood, non lo si può comprendere se non alla luce di ciò che sta all’origine della loro formazione e successiva consacrazione. Insomma, c’è già tutto nel titolo.

Apprezzabile in tal senso è la voglia del regista di mettersi ancora una volta in gioco, non curante di critiche e quant’altro. Jersey Boys conferma infatti la propensione del Clint Eastwood dietro la macchina da presa nel rifuggire etichette, sentieri troppo battutti. Da un celeberrimo episodio della Seconda Guerra Mondiale (Flags of Our Fathers) ad una storia che parla di aldilà (Hereafter), passando per un biopic scottante (J. Edgar). Tanto si è scritto e si è detto del percorso dell’arzillo ottantaquattrenne, specie in relazione alle sue ultime opere. Alcune delle quali, con particolare riferimento all’ultimo decennio, hanno in comune un elemento basilare, ossia l’essere tratte da eventi o personaggi realmente accaduti o esistiti.

Un interessante chiave da cui partire, perché anche in questo caso il potenziale di Eastwood sembra in qualche modo “trattenuto”. Dalla fedeltà alla storia? Dall’approccio al musical? Chi può dirlo? Sta di fatto che anche a ‘sto giro questo grande regista fatica non poco nel consegnarci qualcosa, una a caso tra quelle alle quali si puntava alla vigilia. E dire che parte bene, assecondando un registro da commedia, che in fin dei conti s’impone da sé per via di personaggi spontaneamente comici. La prima parte fa buona leva su certe peculiarità degli italiani trapiantati negli USA, in modo analogo ma diverso da quanto ci ha mostrato il già citato (inevitabilmente) Martin Scorsese.

Una fase contraddistinta da siparietti, battute e uscite generalmente riuscite, attraverso le quali si tenta anche di instillare l’atmosfera di quegli anni, a cavallo tra i ’50 e i ’60. Rema a favore una buona fotografia di Stern, abile nel ricreare un ambiente tipicamente riconducibile a quel periodo visto attraverso il cinema, tra sovraesposizioni volute e quella patina inconfondibile che si posa sull’intera immagine. Tutte misure alle quali Eastwood si attiene scrupolosamente fino alla fine, anche quando magari se ne sarebbe potuto fare a meno.

Si riscontra qui, infatti, il punto debole di Jersey Boys, che contiene in sé un’ineludibile traccia drammatica, dinanzi alla quale il film cede. Una piega che Eastwood non riesce a gestire in maniera efficace, lasciando cadere anche quel po’ di credibilità faticosamente ma magistralmente costruita lungo buona parte del racconto. Dunque è forse questo, ossia la necessità di attenersi ad un tenore e un andamento per forza di cose preesistente, il vero limite di questo lavoro, così come di altri prima di questo da lui diretti? Beh, è una domanda che in questa sede si può appena evocare, giusto per fornire qualche spunto di riflessione.

Quel che si può certo dire è che Jersey Boys non è affatto un musical, e che, nell’accezione più “pura” del termine, lo diventa solo sui titoli di coda. Non aspettatevi perciò coreografie estemporanee o stati d’animo manifestati a mo’ di exploit melodico. La musica è presente nella misura in cui lo richiede la narrazione, dunque per lo più in quei punti dove vengono rievocati concerti o registrazioni negli studi. La si può considerare una variazione sul genere? Mmmhh, non ne siamo tanto convinti. Anche perché, come già lasciato intendere sopra, l’interesse di Eastwood si rivolge più alla natura del rapporto tra i vari componenti dei Four Seasons, specie tra Frankie e Tommy. Non a caso, dovendo scremare gli episodi pubblici da quelli privati, quest’ultimo tipo ne uscirebbe vincitore, visto che la vita dei protagonisti fuori dai riflettori copre buona parte del film.

Dove dunque emerge qualche valore è attraverso i vari personaggi, specie Tommy, la cui alchimia tra il ritratto in qualche modo caricaturale che ne fa il buon Vincent Piazza ed il suo profilo a priori canagliesco gli conferisce una certa consistenza. Bravo pure Christopher Walken, il padrino della situazione, che interviene poco ma quando c’è si sente. Solo che purtroppo al di là di alcuni momenti funzionanti in chiave comica, del dramma di questo cordone ombelicale che è il New Jersey visto da chi lì si è formato si coglie poco, e per lo più niente non che sia già stato detto. È questo ciò che lascia perplessi del recente Eastwood, uno che ci ha abituato talmente bene in passato con certi suoi film che nell’ultimo periodo assistere ad un suo lavoro è un’esperienza che divide. Sai che c’è qualcosa, oltre all’innegabile e sempre meno frequente “mestiere”, ma quel quid tende sistematicamente a sbiadire a fronte dell’insieme di elementi che è il film completo.

Non si avverte il trasporto che c’è in altre sue opere ben più fortunate, né certa montante seppur trattenuta nostalgia basta a dare ragione di operazioni per cui si finisce tutt’al più ad elogiare l’ambizione e non il risultato finale. Con l’appiccicosa impressione, inoltre, che non si sia riusciti ad individuare gli eventi chiave, quei piccoli o grandi episodi capaci di dare spessore all’intera vicenda. Poco, troppo poco per uno come Eastwood, sebbene molti, senza avere tutti i torti, ritengono che il giudizio su un singolo film non debba mai essere eccessivamente viziato dal retaggio del suo autore. Sarà. Ma Jersey Boys rimane uno sforzo modesto da qualunque prospettiva lo si valuti, che sia un musical, una commedia, un gangster movie, un film drammatico o tutte queste cose messe insieme. Ecco, questo va riconosciuto ad Eastwood, ovvero il tentativo di sperimentare con un progetto un po’ meno “in linea”, senza peraltro concedersi chissà quali licenze. Ma a che prezzo?

Voto di Antonio: 5,5
Voto di Federico: 6,5
Voto di Gabriele: 7

Jersey Boys (USA, 2014) di Clint Eastwood. Con John Lloyd Young, Erich Bergen, Michael Lomenda, Vincent Piazza, Christopher Walken, Mike Doyle, Renée Marino, Erica Piccininni, Francesca Eastwood, Freya Tingley, Ashley Leilani, Kathrine Narducci, James Madio, Sean Whalen, Steve Schirripa, Barry Livingston, Jeremy Luke, Silvia Kal, Steve Monroe, Phil Abrams e Ian Scott Rudolph. Nelle nostre sale da domani, mercoledì 18 giugno.