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Calvario: Recensione in Anteprima del film con Brendan Gleeson

Noir in Festival 2014: un prete nei panni d’investigatore per un delitto che non si è ancora consumato: il suo. John Michael McDonagh apre il Concorso con Calvario, acuta black comedy a più strati

pubblicato 11 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 19:47

Partenza tutt’altro che leggera qui al Noir, con un titolo più impegnativo di ciò che sembra. Calvary di John Michael McDonagh è un oggetto particolare, non nelle corde di tanti, ché di tutti, lo sappiamo, non è mai possibile. Ambizioso il giusto, che dietro la scorza da giallo cela un mondo, i cui quesiti non possono certo essere esauriti così sbrigativamente. Anzi, alla luce di come evolve questo settore, è una scommessa parlare di spiritualità, Dio e Peccato, perché in fondo argomenti di cui non di rado si parla troppo e a sproposito, specie al di là dei confini cinematografici. Ed allora meglio partire dal basso, meglio sporcarsi le mani con fattispecie con cui si ha più confidenza, facendo leva sul più classico dei misteri: chi è l’assassino?

Siamo sulla costa irlandese. Dentro il confessionale di una modesta chiesetta, padre James si accinge ad ascoltare da dietro una grata la confessione di un uomo. Quest’ultimo, secco, rievoca il primo rapporto sessuale avuto all’età di sette anni; era un prete, che da lì in avanti più e più volte abusò dell’uomo, oramai adulto. Dunque non sono suoi i peccati che è venuto lasciare dentro a quell’angusto stanzino monoposto, bensì quelli di colui che gli condizionò per sempre l’esistenza. E poiché nessuna azione resta impunita (è un tema già ricorrente quest’anno a Courmayeur), qualcuno deve pagare: sarà lui, l’innocente padre James, a doversi sobbarcare tale fardello. «Domenica prossima la ucciderò. È il colmo, vero? Il giorno in cui Dio risorge, lei muore».

Da qui s’intuisce uno dei leitmotiv di Calvary, che abbiamo anzitempo descritto come opera alquanto particolare. Un certo umorismo nero viene infatti iniettato a più riprese, un po’ per stemperare i toni a tratti quasi solenni, un po’ perché cifra di un film che riesce a prendersi sul serio quanto basta. Il ricco broker che piscia sul dipinto di Holbein il Giovane, quel Ambasciatori il cui teschio così avulso posto in basso è ambiguo oggi come cinquecento anni fa; il giovane col papillon che racconta al sacerdote di aver esaurito tutte ma proprio tutte le possibilità che il porno offre, e che per via del suo incalzante odio verso il gentil sesso sta seriamente valutando di arruolarsi; il collega prete che ha più l’aspetto dell’impiegato comunale che del pastore di anime. Piccoli e grandi accorgimenti che lo sceneggiatore McDonagh non si fa mancare, perché è proprio attraverso la scrittura che Calvary tenta di sfondare.

Un film lento in modo inconsueto, ma che proprio grazie a questo suo scorrere ci lascia il tempo di ragionare, dato che in fondo vuole a tutti i costi stuzzicare lo spettatore anche in quel senso. Mentre padre James interroga gli abitanti del piccolo centro, nel tentativo di capire chi lo ha minacciato quel giorno in confessionale, Calvary passa in rassegna una casistica piuttosto comune di tendenze, situazioni (la Chiesa li chiama peccati) con il quale il sacerdote deve fare i conti. D’altronde prima ancora che della sua pelle, un prete non può che curarsi anzitutto delle anime che gli sono state affidate dalla Provvidenza, ed in questa veste il film tocca le vette più alte.

Padre James è un sacerdote come oggi ce ne sono pochi, fermo nella Dottrina ma più che comprensivo nella prassi. Non si scandalizza quando un giovanotto, intento ad un biliardo in solitario, gli racconta delle sue performance tanto orali quanto anali, brillante nel far notare quanto per lui sia di primaria importanza tenere il proprio dietro sempre ben lubrificato. Non si sa mai. E di scene analoghe ce ne sono parecchie, essendo Calvary praticamente strutturato su questo giro di casi umani da parte di padre James, al quale vengono chieste risposte, veloci e risolutorie, su un ventaglio di questioni capitali; che si tratti di una vedova che ha appena perso il marito, di un anziano stanco della vita o addirittura della figlia depressa col vezzo di tagliarsi le vene. Esatto, il personaggio di Gleeson ha una figlia, dato che prima della vocazione al sacerdozio ci fu quella al matrimonio, da cui nacque una bimba, un po’ come Sant’Agostino.

Quella di padre James diventa dunque una parabola anzitutto umana, eminentemente umana, che però tiene sempre conto delle implicazioni con l’Assoluto. Il caso da risolvere diventa dunque un elemento pressoché secondario, giusto per tenere desta l’attenzione di chi non sa che farsene di un prete che tenta in tutti i modi di trovare un senso alla propria missione e pure a quella altrui. Uomo fino in fondo, nell’accettare i limiti suoi e degli altri, senza però mai giustificarli, perché sa che l’uomo peccatore ha bisogno di essere perdonato, non assecondato. Non deve perciò fare specie che un tizio in talare, così come si vestivano i preti di una volta, coscienti del fatto che oramai non appartenevano più a sé stessi, non lesini il turpiloquio, le scazzottate e pure le sbronze se serve. Senza però fare di lui la parodia di sé stesso e della categoria alla quale appartiene, perché father James non è ciò che ciascun prete dovrebbe essere, ma solo father James, per l’appunto.

Un’opera che per certi versi si rifà alla tradizione dei vari Mike Leigh, con quel tono tipico dei suoi film, tesi sempre a raccontare storie radicalmente concrete in modo bilanciato, né commedie né drammi. Di diverso, chiaramente, c’è l’approccio, che invece ripesca dal filone black comedy l’ironia nera per alcuni aspetti spiccatamente britannica – ricordiamo che John Michael è fratello di Martin McDonagh, quello di In Bruge, per intenderci. Una famiglia di drammaturghi perciò, e qui John Michael mette a servizio il proprio estro per veicolare una storia importante, forse pure necessaria in un periodo come questo. Pazienza se in alcuni passaggi Calvary risulta un pelo didascalico, sbrigativo nell’archiviare questioni che meriterebbero tutt’altro argomentare. Non al cinema però. Qui abbiamo un prete di provincia dall’innegabile carisma, umile ma risoluto al tempo stesso che col suo esempio (da cui il Calvary del titolo) ci ricorda l’importanza di essere autentici, integri prima che cristiani.

Voto di Antonio: 7½

Calvario (Calvary, Regno Unito, 2014) di John Michael McDonagh. Con Kelly Reilly, Domhnall Gleeson, Chris O’Dowd, Brendan Gleeson, Aidan Gillen, Marie-Josée Croze, Dylan Moran, David Wilmot, Isaach De Bankolé, Killian Scott, Orla O’Rourke, Pat Shortt e Anabel Sweeney. Nelle nostre sale da giovedì 15 maggio 2015.