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White God: Recensione in Anteprima del film vincitore a Cannes

Noir in Festival 2014: al confine tra favola e realismo, l’ungherese Kornél Mundruczó mette in scena un’insolita ribellione con protagonisti centinaia di cani provenienti dalla Budapest bassa, quella della strada. Quella dei “diversi per razza”

pubblicato 13 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 19:42

Una città deserta. È Budapest. Una ragazzina in bicicletta viene inseguita da un’orda di cani che corrono all’impazzata, senza meta, apparentemente disinteressati alla piccola. White God parte dalla fine, dato che ciò che viene dopo è l’illustrazione degli eventi che hanno portato centinaia di cani a seminare il panico per la capitale ungherese.

Leggiamo che Kornél Mundruczó intende dedicare il film a Miklós Jancsó, uno dei maggiori registi ungheresi di sempre. Ed a posteriori non sfuggono i motivi, per lo meno quelli che è possibile scorgere dall’esterno. White God è a suo modo una feroce critica di stampo sociale, tematica cara a Jancsó, il cui cinema rientra senz’altro nel filone politico, a più livelli. Azzardare letture resta comunque una pratica alla quale in questo caso resistiamo volentieri, perché sull’operazione di Mundruczó tutto si può dire fuorché sia sprovveduta.

Anzi, scegliendo di seguire la parabola di un cane da animale domestico a leader di una rivolta, passando per il pietoso sottobosco delle lotte clandestine, s’imbocca un sentiero da cui non si può uscire dall’altra parte a mani vuote. Hagen, un bastardello che vive con la padrona Lili, viene un giorno abbandonato sotto la pressione del padre della ragazzina, divorziato, che non intende prendersi cura dell’animale. Da qui hanno inizio le peripezie della povera bestia, mentre vaga per le vie di Budapest ed impara a cavarsela da solo anche grazie all’aiuto di un cagnolino che lo inizia all’universo underground dei randagi.

Dicevamo che non intendiamo prendere posizione, eppure l’ascesa di Hagen costituisce una metafora piuttosto esplicita, pure troppo, per far del tutto finta di niente. Metà film, in modo alternato, segue questo cane che riesce a far sorridere con alcune sue tenere ed incolpevoli espressioni, oppure a strappare una lacrima laddove subisce vere e proprie torture. Mundruczó sa benissimo come manovrare lo spettatore e non lesina a più ripresa di ricorrere al registro della commedia per ammorbidire e poi un attimo dopo partire con la stoccata.

White God a tratti sembra un film d’animazione Disney girato da Ken Loach, tanto i buoni sentimenti si mescolano con la denuncia o la satira sociale. Eppure non è mai scomodo, né può esserlo per via della piega che prende nel momento in cui i cani non sono più cani ma ribelli, reietti venuti fuori dal sottosuolo come zombie che attaccano i vivi. Per mangiarseli forse? Chi può dirlo?

In tal senso Mundruzco resta vago, optando per un’ambiguità che è funzionale al buon esito dell’esperimento condotto. Non ci sembra infatti opportuno tacere i meriti di un film che riesce a fare di un branco di cani degli attori (laddove tanti registi faticano ad evitare che certi attori si comportino da cani. Scusate, non abbiamo resistito): specie Hagen sembra un interprete navigato, meravigliando per la naturalezza con cui le sue scorribande appaiano credibili. E pur tuttavia, quando al film viene sovrapposta una traccia ulteriore, la seppur logica simpatia muta in parodia. White God diventa un horror, siccome queste bestiole ne hanno subite di cotte e di crude, perciò ecco una rivolta che nemmeno ai tempi del cinema russo tra gli anni ’20 e ’30. Serve a questo punto offrire un appiglio, qualcosa grazie a cui lo spettatore possa fare a meno di avvertire il peso della denuncia – oltre al fatto che si tratta di una sedizione canina, s’intende.

Dunque a Loach segue Romero, che però non prende il posto del primo bensì vi si sovrappone. Questo, e qualche altra cosa, contribuiscono a fare di White God un film senz’alcun dubbio cinefilo (qui la battuta è talmente scontata che ci sentiamo in difetto anche solo ad aver aperto la parentesi), ben disposto però anche verso un pubblico meno incline a certi meccanismi, che si appassionerà al rapporto tra Hagen e Lily, sorriderà quando Hagen salterà in aria per il suono improvviso di una sirena, chiederà vendetta tremenda vendetta a scapito dei cattivi (venendo immancabilmente accontentato), ed in ogni caso verrà-quasi-sistematicamente-assecondato in tutte le sue voglie.

Senza alzare troppo (e inutilmente) l’asticella, ma un tempo i greci cercavano la catarsi attraverso spettacoli e un coro che si soffermavano, nel bene o nel male, attorno gesta grandiose o turpi, schiribizzi divini e miserie umane. Oggi ci si rigenera attraverso una sommossa, fuor di metafora, a quattro zampe. Ed il fatto che un film intriso di un innegabile realismo, com questo, riesca ad attecchire fino a tal punto, la dice lunga su chi ha ragione e chi ha torto: se chi trova l’intera faccenda grottesca (e, solo in funzione di questo, interessante); oppure Mundruczó, con al seguito uno stuolo di simpatizzanti pronti a sostenere il suo operato fino all’ultimo cane. Adorabile o meno che sia.

Voto di Antonio: 5
Voto di Gabriele: 3

White God (Fehér Isten, Ungheria, 2014) di Kornél Mundruczó. Con Zsófia Psotta, Sandor Zsoter, Lili Horváth, Szabolcs Thuróczy, Lili Monori, Gergely Bánki, Tamás Polgár, Károly Ascher e Erika Bodnár. Nelle nostre sale da febbraio 2015.

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