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Noir in Festival 2014: resoconto e considerazioni finali

Noir in Festival 2014: immancabili considerazioni su un Festival sottotono ma che nonostante questo, paradossalmente, conferma la sua importanza

pubblicato 15 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 19:40

Breve e fugace. Così possiamo riassumere le sensazioni a caldo post-Courmayeur; con due aggettivi. Il Noir in Festival di quest’anno ci è scivolato tra le mani, quasi dileguandosi, con non poca nostalgia. Impressioni che ci hanno attraversato dall’inizio alla fine, perché che l’aria fosse un’altra lo si percepiva già prima di mettervi piede. Ci siamo allora domandati come mai, che cosa acuisse questo stato melanconico, e la risposta non è tardata ad arrivare. Il Noir è oramai un evento che consideriamo rilevante nell’ambito dell’intera stagione festivaliera. Non a caso giunge a fine anno, quando oramai le somme sono state tirate e tra le montagne sempre meno innevate si discute sulla condizione di questo genere, di come sta evolvendo, quali siano le risposte nei vari ambiti, mainstream o il suo contrario.

Ce ne siamo resi ancor più conto quest’anno, con un Noir ridimensionato, perché non di rado la quantità finisce con l’essere qualità. Sebbene questo sia un appuntamento strutturalmente contenuto, che a ragion veduta rifiuta i tempi di rassegne ben più blasonate, e che di tale aspetto ne ha fatto un punto di forza. Tuttavia pare che sia venuto a mancare quell’equilibrio che tanto bene ha fatto alle ultime due edizioni (che sono le uniche a cui il sottoscritto ha partecipato, non per altro); ed allora avverti che non tutto è al proprio posto. Per un evento che si è sempre detto, e con fierezza pure, figlio del proprio tempo, le questioni che solleva un esito di questo tipo sono tremende. Davvero esiste un futuro che tende fisiologicamente a rigettare eventi come questo? Alla fine non si potrà far altro che issare bandiera bianca?

Stemperiamo immediatamente certi toni catastrofisti. Non conosciamo le logiche che stanno in alto, quindi non c’interessa avventurarci in quel sentiero. Ma il presente ci parla di un Noir che sta cambiando, e ai nostri occhi non è possibile immaginare traghettatori più affidabili di Giorgio Gosetti e Marina Fabbri, ai quali, dall’esterno, tutto sembra mancare fuorché la passione per un progetto al cui buon nome hanno contribuito in maniera determinante. Dalla catastrofe all’apocalisse? Avete ragione, me ne scuso. Ma davvero si ha l’appiccicosa impressione che più di così non si poteva fare; e non stiamo mettendo le mani avanti, poiché chi ha seguito il nostro diario sa di cosa stiamo parlando. Le nostre considerazioni negli ultimi giorni sono state dirette, senza troppi giri di parole, ché in certi casi non ha nemmeno senso. E oramai possiamo dirlo: se durante la scorsa settimana non si è percepita aria di dismissione, beh, è solo perché il lavoro degli organizzatori ci ha messo una pezza, sopperendo ad altre mancanze con cui senz’altro toccherà fare i conti di nuovo a breve. Quali sono queste mancanze? Eh, come un mago con i suoi numeri, al Noir sono stati abili nel non svelare il trucco. E oggi, cari lettori, nonostante tutto, pare che proprio di maghi ci sia bisogno.

Nelle scorse ore ho riflettuto se fosse stato o meno il caso di mettere le mani avanti come è stato appena fatto, e sapete che c’è? In un articolo come questo vanno offerte riflessioni, spunti, perché un resoconto non può limitarsi alla cronaca. Per questo abbiamo sempre un diario in cui annotare le nostre giornate. Paradossalmente un Noir ulteriormente alleggerito conferma quanto di un simile evento, comunque lo si voglia chiamare e dovunque lo si voglia fare, sia necessario. En passant, si è ragionato fino all’ultima sera sull’importanza dei generi e dei codici apparentemente rigidi che portano in dote; del fatto che sempre meno gente, cultori a parte, è disposta a bazzicarli; di conseguenza della possibilità che questi non tanto scompaiano, ma semplicemente ci si scordi com’erano e come dunque, di volta in volta, potrebbero essere. Argomenti ad avviso di chi scrive capitali, e tutte le rassegne che convergono l’attenzione su di essi vanno incoraggiati. Specie il Noir, certo, che tra molti è quell’uno che, per un motivo o per un altro, è riuscito negli anni a ritagliarsi uno spazio, un ruolo non indifferenti.

Prendiamo un film come Storie pazzesche. A Cannes divertì più o meno tutti, e sebbene non ci si poteva aspettare chissà quale riconoscimento oltre alla già notevole inclusione nel Concorso, resta comunque uno dei ricordi positivi di quel periodo. Ebbene, basta variare un po’ la prospettiva, inserendolo in un altro contesto, ed ecco che un progetto di questo tipo assume un’altra valenza. Il noir declinato alla commedia, o viceversa, proveniente da un Paese che di solito certe cose non le esporta. Al di là dei giudizi di valore, perciò, la presenza di un film come questo s’inserisce in un discorso d’indagine, che sta anche e soprattutto allo spettatore portare avanti, ché dovere del Festival è per lo più proporre.

Ne citiamo un altro? Calvario. Più ci ragioniamo su e più ci sembra essere questo il titolo più intelligente tra quelli visti a Courmayeur quest’anno; lo è in relazione all’approccio leggero ma tutt’altro che superficiale a questioni che diversamente verrebbero trattate o con troppa solennità o con fastidiosa approssimazione. Dissimulandosi, la domanda su cui poggia non è, come sarebbe lecito pensare: «chi è che vuole ammazzare il prete?», bensì «perché il prete non è ancora morto stecchito?». Un lieve spostamento che è tutto, e che riesce quasi a far dimenticare quanto Calvary in alcuni passaggi appaia un po’ troppo sbrigativo, pericolosamente didascalico. Ma è parte del processo, quello che deve tener conto della ritrosia di uno spettatore che di dinamiche antropologiche, storiche e finanche sociologiche non ne vuole sapere, salvo non essere inserite in un film d’azione o movimentato in genere.

calvary

In the box, il film italiano, è vero, è lavoro sin troppo modesto. Ma di cui soprattutto sfugge il senso, specie oggi che certe operazioni sembra essercele lasciati alle spalle, volente o nolente. Ed è pure un pelo provincialotto in quel suo adottare una lingua che non gli appartiene, non importa quanto credibile sia la pronuncia della sua protagonista. Un film rarefatto, “finto” perciò. Eppure. Eppure non passa inosservata la voglia di emanciparsi da un ambiente in cui produttori e distributori hanno da tempo perso il gusto per il rischio, ripiegando su progetti facili facili, non per che siano commedie (la commedia, al contrario, è difficilissima) ma perché quel tipo specifico di commedia. Qui c’è qualcuno che con In the box tenta di farsi strada verso territori che noi sconosciamo, da cui i limiti a più livelli: di scrittura, di struttura, di regia. Ma è valsa decisamente la pena provare, specie sapendo che altrove, sempre in Italia, c’è chi la propria scommessa, nella peggiore delle ipotesi, l’ha mezza vinta. Alludiamo ad Ermanno Olmi con il suo Torneranno i prati. Ma poi lo stesso Gabriele Salvatores, che a breve esce con Il ragazzo invisibile, non intende cedere, dimostrando non solo il desiderio ma la necessità di sperimentare in quei campi che per le nostre produzioni rappresentano territorio inesplorato. I risultati non sono del tutto soddisfacenti? Ok, ma per come stiamo non ce ne verrà alcun danno se continueremo a fare cilecca ancora per un po’; sempre meglio che tenersela dentro le mutande.

A Black Sea abbiamo involontariamente concesso lo spazio maggiore, non fosse altro per la nostra intervista a Dennis Kelly. Che altro dire? Recupera quanto di buono hanno fatto certi action, sci-fi ed adventure degli anni ’80, sempre snobbati dalla critica ma che da qualche anno a questa parte stanno tornando in auge perché i ragazzini che allora se ne innamorarono oggi hanno circa trent’anni in più, una tastiera e talvolta pure un’interessante proprietà di linguaggio. Si erge giusto un pochettino rispetto alla media, pur senza prendersi troppo sul serio, oltre a coinvolgere come solo un film d’avventura può fare, dando un senso all’esplorazione sott’acqua, laddove oramai vogliono farci credere che l’unica frontiera inesplorata sia lo spazio. Il Leone Nero, scelto per la prima volta dal pubblico e non da una giuria qualificata, pone un sigillo importante su questa ultima fatica di Kevin Macdonald.

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Altri film gli avevamo già visti, di alcuni parlandone pure. Snow in Paradise, Big Hero 6 e White God sono oggetti non inediti al nostro radar, mentre Things People Do a parere di chi scrive tradisce una certa flessione da parte di certo cinema indipendente americano, che dopo aver inanellato tutta una serie di opere capitali, in sempre più casi sta ripiegando su sé stesso. Poi c’è stato The Salvation, ultimo film in Concorso, che è un western tradizionale e ben confezionato, però senza infamia e senza lode. Oh, a breve gettiamo nella mischia una recensione, e chissà che le cose non cambino. Questo è tutto. Anzi no.

Rimandandovi all’apposito pezzo che stiamo preparando, non possiamo esimerci, per la seconda volta, dal menzionare Blade Runner. I sacerdoti di tale culto sapranno loro come regolarsi; è a tutti gli altri che noi ci rivolgiamo. Ebbene, Blade Runner sul grande schermo è tutta un’altra cosa. Sì, lo sappiamo che quasi tutti i film visti al cinema sono un’altra. Dov’è la novità perciò? Nessuna novità. Siamo stufi di novità. Blade Runner è un capolavoro al di là del tempo, che oramai è circondato da un’aria mistica per cui vederlo oggi in sala è tutta un’altra cosa anche rispetto a come in sala lo videro nel 1982 – non solo perché, scontato, questa è la versione definitiva fortemente voluta da Ridley Scott. Il restauro è fantastico, ma questo lo si sapeva già da qualche anno. Chi non ha mai visto in vita sua Blade Runner, ancora meglio: questa è la versione che sarebbe dovuta essere dall’inizio, senza voce narrante e finale à la Hollywood. Esce in primavera nelle nostre sale, perciò godetevela! Di nuovo. Ve lo meritate.

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