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Journal d’une femme de chambre: recensione in anteprima del film in concorso a Berlino 2015

Dopo Renoir e Buñuel tocca a Benoit Jacquot cimentarsi nel gravoso compito di trasporre il romanzo di Maribeau. Journal d’une femme de chambre si rivela però un più che debole film in costume dalla scarsa attrattiva

pubblicato 8 Febbraio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:21

Appena cinque mesi fa Benoit Jacquot lo si è visto dalle parti del Lido, con il suo discusso 3 coeurs. Anche se c’è poco di che discutere: trattasi del peggior film in Concorso all’ultima Mostra. Ed allora il regista francese torna, di nuovo in Concorso, ma stavolta a Berlino. Journal d’une femme de chambre è il titolo di un romanzo di Mirabeau risalente al 1900 esatto. Un testo importante anche per il cinema, dato che, prima di Jacquot, è stato trasposto altre ben due volte da due tra i cineasti più influenti della storia, ovvero Renoir e Buñuel.

Ma questo non ha affatto messo in soggezione il regista de L’intouchable, che anzi ingrana la quarta ed offre la propria di versione. Il risultato è allucinante e allucinato; una trasposizione nient’affatto ragionata, che appronta discorsi vecchi, triti e ritriti, mediante uno stile, o se vogliamo un linguaggio, che lascia perplessi. Come non accorgersi dell’impatto che certe scene potrebbero avere sul pubblico è pressoché un mistero.

Il film parla di questa giovane donna che tenta in tutti i modi di ribaltare il proprio destino, dopo una vita passata tra case di tolleranza ed altri padroni, sempre però a fare la stessa cosa: dare piacere a chi può permetterselo. Per riuscirci Celestine (Léa Seydoux) si reinventa cameriera, badante, accorgendosi presto di essere passata da una forma di schiavitù a un’altra. Ed effettivamente la Seydoux ci prova, se non fosse che ha a che fare con una sceneggiatura rammendata, fatta di entra ed esci tra tempo diegetico, ricordi, pensieri e magari qualche allucinazione.

Al di là dell’argomento, inutilmente pruriginoso, che nell’anno Domini 2015 non si vede come possa attecchire, è proprio la regia una delle note più stonate. Personaggi lasciati in balia di sé stessi, sconnessi l’uno dall’altro, ed in maniera involontaria. Già il discorso arriva fuori tempo massimo, ma se a questo si aggiunge un lavoro così approssimativo su coloro che si muovo all’interno di questo sconclusionato teatrino, è dura pensare di poter anche solo intrigare.

Torniamo alle scene assurde di cui sopra. Celestine viene ingaggiata da una ricca signora anziana che vuole un po’ di compagnia per il nipote gravemente ammalato. Quest’ultimo, sotto le cure amorevoli della ragazza, comincia a stare un po’ meglio, finché non prende una sbandata per la giovane; perciò arriva l’approccio, fino a giungere all’amplesso, che vede il ricco padroncino spirare sotto le gambe dell’incolpevole Celestine.

Il problema non sta nel fatto in sé, quanto nelle dinamiche ma soprattutto come vengono portate avanti. Jacquot perde totalmente il controllo della scena, vanificando l’evidente erotismo in grado di emanare la Seydoux, che quasi quasi violenta il ragazzo, e tra un suo rantolo ed un gemito di piacere, lui vomita sulla di lei bocca tanto sangue, mentre quest’ultima continua imperterrita come fosse un’invasata. Una scena ridicola, che non funziona a qualunque livello, se non quello comico.

Più avanti Celestine verrà più e più volte posseduta, quasi sempre controvoglia: il massimo che si riesce a trarre da questi momenti è lei stesa su un letto, rigida come un tronco di legno con lo sguardo fisso nel vuoto, inespressivo. Passi una, facciamo due, ma alla terza, magari mentre un uomo facoltoso tiene il suo bastone appoggiato sulla gola di lei, cominci a pensare che non qualcosa di storto ci sia.

Solo questo?, penserà qualcuno. Beh, non è poco, ma i veri difetti sono altri. Per esempio le continue dissolvenze in nero oppure in bianco per evidenziare il passaggio ad un ricordo o un semplice salto temporale in avanti, roba che se non viene usata con parsimonia, ed in modo sensato, si rischia tutt’al più di indisporre lo spettatore; come non meno distraenti sono i reiterati zoom buttati lì a caso. Tutte misure che concorrono a rendere ulteriormente aleatorio un progetto che, alla luce di quanto visto, non ha alcun fondamento. A chi si rivolge questo Journal d’une femme de chambre? Perché? C’è qualcosa che Jacquot ha colto che non fosse già emerso dalle due precedenti trasposizioni?

Qualora la risposta a quest’ultima domanda fosse affermativa, ci si può solo limitare ad ammettere che il regista non offre spunto o indizio alcuno a tal riguardo. Questa sua versione del romanzo di Mirabeau è sterile, banale, surreale nell’accezione meno nobile del termine. Un film che insomma ci si meraviglia di trovare in Concorso; un Concorso che fino ad ora ha dato soddisfazioni, con alcuni picchi addirittura. Ed allora lo “stupore” viene ridimensionato, dato che a qualcuno tocca sempre attirare il malcontento generale. Solo che la forbice a ‘sto giro è davvero ampia.

Voto di Antonio: 2
Voto di Gabriele: 4

Journal d’une femme de chambre (Francia, 2014) di Benoit Jacquot. Con Léa Seydoux, Vincent Lindon, Vincent Lacoste, Clotilde Mollet e Hervé Pierre

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