Home Notizie Greta Garbo: Abbiamo mai pensato, o abbiamo dimenticato, di essere “prigionieri del cinema”?

Greta Garbo: Abbiamo mai pensato, o abbiamo dimenticato, di essere “prigionieri del cinema”?

Leggendo “Allucinazioni” di Oliver Sachs, neurologo ed esperto di cinema (che cita spesso nei suoi libri), s’impara che per giudicare i film è meglio non leggere i soliti critici.

pubblicato 14 Maggio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 15:54

C’è una ragione a mio parere valida per riscrivere in gran parte, per una nuova edizione della Lindau, il libro Greta Garbo star per sempre. Greta cambiò le allucinazioni, patrimonio dell’umanità. Le reinventò, e lo capì solo molto tardi, dopo aver conquistato il cinema che l’aveva posseduta con violenta dolcezza e conquistata, sul set e nelle sale di proiezione, tra i fumi delle sigarette del pubblico e le sue, morbidamente tenute tra le dita, come oppio. Greta agì da adorabile sonnambula che entrò nel bianco e nero, bianca come un angelo sul nero della pellicola, buio, notte, baratro, solcato dal lampo.

Le allucinazioni del cinema, intensamente, prepotente¬mente – irresistibili – erano un lascito del mondo che non aveva mai avuto un lenzuolo bianco, grande, un’ala quadrata davanti agli occhi, seducente come una calamita, per avvolgerlo. Un mondo senza lenzuola, oggi, inimmaginabile. Una vecchia storia che continua, quella delle allucinazioni. Un modo di vedere. I marinai, quando passano giorni a guardare il mare piatto, lenzuolo orizzontale, vedono «cose» (e forse le odono anche). Lo sapevano e lo hanno scritto gli uomini che leggono il cervello, scienziati, come Oliver Sachs. Sachs, genio affascinato da Greta, il quale ricorda che anche gli uomini in cammino nel deserto, viaggiatori senza riferimenti, hanno visioni come gli esploratori delle regioni polari che si muovono in un paese di ghiaccio, vasto e uniforme. Queste visioni vengono chiamate «miraggi» e sono allucinazioni. Persino Antonio De Curtis, Totò, le ha vissute in Totò sceicco (1950), urlando furioso a «questo maledetto sole africano»: colpi di sole che ricreavano dalla notte dei tempi una sotterranea Atlantide e la pericolosa regina Antinea. Il bacio di Antinea dà la morte e Arnoldo Foà, colpito dal sole e soprattutto da una potente febbre d’amore, conosce il pericolo; ma il richiamo è irresistibile per l’ultimo bacio, visione accecante, promessa di un’apoteosi potente, rischio imperdibili.

Greta Garbo_star-per-sempreQuanti uomini nei film di Greta risultano folgorati dell’allucinazione della bianca sonnambula, lei, proprio lei, mate¬ria di celluloide? Tutti. John Gilbert, Robert Montgomery, Ramon Novarro, Charles Boyer, Melvyn Douglas… e con loro molti milioni di ignoti maschi. Ma anche tante donne, sugli schermi e nella vita, i volti, i corpi clandestini in epoche di divieti omosessuali. Le allucinazioni hanno avuto un ruolo importante, sempre, ovunque; ma bisogna chiedersi fino a che punto la mente, l’arte, il folclore, persino la religione, abbiano origine da esperienze allucinatorie. Davanti allo spettacolo di una notte stellata o di una natura che pare talmente stregata da spingerci a vedere elfi, folletti, fate. O davanti agli incubi che tormentano, presenze maligne, crisi simili a quelle che aveva Dostoevskij, crisi «estatiche».

Nella notte stellata, senza vere stelle, da quando debuttò nel cinema nel 1921 a sedici anni, Greta cominciò sfilare nelle storie, nei drammi, nelle passioni, nella felicità splendente e nella felicità che se n’è andata. Greta come un giunco, un taglio nel quadro della proiezione; creava un prima e un dopo, separando il nulla delle luci di servizio e promettendo il paradiso, l’ineffabile raggio di brividi, nel buio finto, artificiale. Ecco il prodigio. Nasceva all’improvviso, come il colpo nel buio, un sole bianco su sfondo nero. Ecco la scena. Ecco Greta. Luminosa. Reale. Non un prodigio ma un esperimento dei sensi. L’ombra sullo schermo diventava vera «dentro lo spettatore» e, grazie al film che vedeva, era coinvolto nel luna park della attrazioni.

Lo spettatore imparava a far tesoro del suo handicap senza saperlo, lo scopriva in suo intimo segreto. La perdita delle normali possibilità visive porta gli occhi a farsi comandare da una suggestione, e può stimolare «l’occhio interiore». Un occhio interiore, invisibile, che vede e produce sogni, immagini vivide, forti allucinazioni; e fa lui il film, nuovo, nel magazzino della mente. Greta, da star, brillava sullo schermo, ma il suo viso, il corpo, il fascino brillavano ancor più nella luce accesa dall’occhio interiore e segreto di ogni spettatore. La prova provata che il cinema è capace più di ogni altra forma d’arte di agire, confortare o tormentare chi si trova nell’oscurità o nell’isolamento.

Oliver Sachs suggerisce due parole, due termini scientifici, che spiegano e offrono la chiave giusta: il «cinema del prigioniero». Senza ore d’aria, o con poca aria. Chiusi nella libertà, nel buio illuminato del fascio di luce, la lanterna della libertà. Il «cinema» che feconda le allucinazioni esisteva prima dei fratelli Auguste e Louis Lumière, figli del pittore Antoine, fabbricanti di lastre di bromuro d’argento. Quando le lastre trovarono il movimento nacque l’età moderna. Il 28 dicembre 1895 a Parigi, al Gran Café, al numero 14, Boulevard des Capucines, l’ignaro spettatore entrò in una comoda, fascinosa «prigione» e non ne uscirà più.

Una «prigione» che si trasformò in un idillio che era il frutto di una lunga avventura cominciata diversi anni prima. Vibrante di novità, una letteratura che anticipava il cinema. Un’avventura costellata di mostri, che fu generata da una giovane donna innamorata di un poeta, poi madre di Frankenstein, il primo mostro concepito fuori dal parto, ma parto esso stesso, ugualmente. Frankenstein, un corpo formato di organi di defunti, nuovo corpo alla ricerca di un’anima. La madre si chiama Mary Shelley, a diciannove anni autrice di uno dei romanzi più sconvolgenti della letteratura: Frankenstein, o il moderno Prometeo, scritto e pubblicato negli anni in cui l’Inghilterra inventava lo smog, una nebbia fitta resa maleodorante dai fumi delle fabbriche che costellavano i cieli della rivoluzione industriale; e sotto il cielo cupo, bambini e genitori respiravano la realtà di un olocausto senza paradiso né in terra né nel domani. Gli anni che costruirono il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels (1848).

Erano anni anche romantici, sugli scenari delle guerre napoleoniche, i moti nell’impero austro-ungarico, l’eco delle proteste nei grandi domini degli zar, le rivoluzioni del lontano Sud America, le guerre d’indipendenza italiane. Ma la terra e il mare erano ancora in grandissima parte incontaminati, e così li scopriva l’inglese Mary, figlia di William Godwin – filosofo radicale, scrittore ed editore di libri di bambini – e di Mary Wollstonecraft, a capo del primo movimento femminista, che morì dieci giorni dopo la nascita di Mary. Progressisti, benestanti, diversi da quella che sarà la fa¬miglia Gustafsson, quella di Greta, povera, abitante nella periferia di Stoccolma. William era un padre poco disposto a concedere autonomia alla giovane Mary che s’innamorò giovanissima del poeta Percy Bysshe Shelley, di cinque anni più grande, già sposato, padre di due figli; con lui scappò a Parigi e in Svizzera, a Ginevra, dove furono ospiti di Lord Byron. Mary rimase presto incinta, nel 1815, e la prima figlia morì. Le nozze con Percy avvennero nel 1818. Una passione intensa, senza respiri, di continuo funestata. Dei quattro figli nati dal matrimonio, solo uno sopravviverà, ci fu anche un aborto spontaneo.

Infine, la ex moglie di Percy si tolse la vita. Danza macabra. Frankenstein nacque in un gran bivio di morti, uno dopo l’altro. Di notte, negli incontri alla Villa Diodati di Lord Byron, avvenivano serate di divertimenti maledetti con la partecipazione di persone che sperimentavano il galvanismo (studi sull’elettricità animale) o raccontavano gli esperi¬menti sulla rianimazione della carne umana, e che cercarono di scrivere i capitoli di una storia dell’orrore. La più diligente fu Mary che ebbe l’idea del mostro «costruito» in laboratorio che fa paura e cerca l’umanità negli umani: Frankenstein, creatura senza pace, cominciò il suo viaggio. Letteratura, teatro, cinema.

«Una sorta di incantesimo…» Il viaggio dei mostri prese il mare nel libro di Mary Shelley e continuò con Bram Stoker, autore di Dracula (1897), il romanzo che preparò, da neonato, numerosi film muti e sonori. Dieci realizzati in Italia nei primi del ‘900, molti di più a Hollywood. In Europa, comparvero i più famosi, entrati nella storia: i fascinosi e struggenti Nosferatu di F. W. Murnau (1922) e II vampiro di C. T. Dreyer (1932). Fecero «prigionieri» milioni di spettatori. Allucinazioni fondate sulla paura, che nel buio, grazie alla sottile lama di luce, accesero in ognuno «l’occhio interiore», film privati, personali. Lunga è la vita dei nosferatu, i mai morti. Fino a noi, fino a Twilight, la serie dei vampiri adolescenti, belli e irresistibili, cominciata nel 2008. Greta fu un mostro, un vampiro e quindi una Divina.