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Fury: recensione in anteprima del film con Brad Pitt

Brad Pitt a capo della squadra Fury, un tank di eroi che si fa largo oltre le linee nemiche. David Ayer si affida ad una prospettiva insolita, portandoci nell’ambito della Seconda Guerra Mondiale attraverso un gruppo che manovra un carro armato

pubblicato 1 Giugno 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 15:23

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Per il sergente Collier (Brad Pitt) gli ideali non sono un male; la guerra lo è. Fury è un film che non si discosta dal titolo, seguendo pedissequamente le vicende di questo carro armato, che per l’appunto prende il nome di Fury, e perciò dei suoi componenti. Il già citato Don ‘Wardaddy’ Collier, Boyd ‘Bible’ Swan (Shia LaBeouf), Trini ‘Gordo’ Garcia (Michael Peña), Grady ‘Coon-Ass’ Travis (Jon Bernthal) e Norman ‘Machine’ Ellison (Logan Lerman). Quest’ultimo, per certi versi, un po’ ci rappresenta; in quanto spettatori intendo.

Arrivato alla Guerra come dattilografo, causa mancanza di personale, il giovane è costretto a reinventarsi pilota di tank, con tutto ciò che ne consegue. E la parte centrale parla proprio di questo, ovvero del travagliato apprendistato del ragazzo, che alla sola vista di un cadavere rimette, figurarsi all’idea di dover uccidere qualcuno. Ayer non ci gira troppo intorno e tenta di restituire la tragedia della guerra in tutta la sua crudezza, nella sua irrazionale violenza.

Per riuscirci si affida ad un approccio piuttosto convenzionale, ché già la prospettiva di questo carro armato che si fa largo oltre le linee nemiche rappresenta una licenza bella e buona rispetto alla media. Uno dei maggiori limiti di Fury, tuttavia, sta nel non aggiungere nulla, aspetto che può in varia misura incidere a secondo della predisposizione dello spettatore. Di certo non manca lo spettacolo, né la cura di un prodotto che a livello di atmosfera centra pressoché a pieno la fotografia e lo scenario di un’Europa, specie nelle aree periferiche e rurali, devastata dalle macerie di una guerra che sembra non finire mai.

Alcuni frangenti, peraltro, funzionano piuttosto bene pur nel loro porsi al confine con la didascalia. Uno dei momenti più interessanti, non a caso, non lo si riscontra in battaglia (e ce n’è due/tre dense di spettacolarità), bensì all’interno di un’abitazione. L’esperto Don e lo spaesato Norman irrompono nell’appartamento di un paesino tedesco appena occupato dalle forze statunitensi, al cui interno sono rimaste due donne, di cui una molto giovane. Ayer non resiste e ricrea un surreale quadretto familiare, lì, nel bel mezzo di un contesto dove si sentono spari, dove tutto è sporco e presumibilmente puzza. Fino ad un certo punto ciascuno dei quattro ci crede, e con loro anche noi, finché la squadra Fury non irrompe riportando tutto alla “normalità”: siamo in guerra, il resto non conta.

Un’altra delle componenti con le quali certe produzioni devono confrontarsi è per forza di cose la retorica del vincitore, che in mano ad Hollywood ha assunto forme particolari; sul finire, infatti, Ayer cede al trionfalismo, come sempre celato dietro l’immancabile parafulmine del «tratto da una storia vera». Ma non ce la sentiamo di essere troppo rigidi a riguardo; sebbene non si possa dire che la visione della Guerra e del ruolo che in questa hanno avuto gli Stati Uniti sia del tutto distaccata, Fury non tace certe cose non proprio edificanti, come la visione di questi soldati in balia di decisioni talvolta assurde, prese da chi sembra stare su un altro pianeta rispetto a quanto si sta consumando sul campo di battaglia.

Di riflesso c’è il senso del dovere, al quale non si viene meno perché gli USA anzitutto; di uomini che diventano macchine essi stessi, macchine da guerra, disposti a tutto pur di seguire ordini che oramai recepiscono senza filtro, cercando al tempo stesso di mantenere vivo quel briciolo di umanità che gli è rimasto – al quale tutti, specie dopo l’innesto di Norman nella squadra, tentano di aggrapparsi con le unghia, malgrado tutto. Del disagio e della drammaticità di quel periodo passa quindi molto attraverso i suoi protagonisti, senza dubbio stereotipati, ma utili e credibili nell’ambito di un progetto che non intende fare salti mortali per arrivare al punto. Si sceglie perciò la via più facile, ordinaria più che altro, aggiungendo qui e là qualche bella “scena di guerra” vera e propria, dove si può anche mettere da parte la verosimiglianza a favore di due o più carri che si sfidano in campo aperto come fosse una partita di fioretto.

Ho trovato leggermente stonati i colpi di cannone che scimmiottano i blaster à la Star Wars, con tanto di colori, aggiungendo un’involontaria nota di fantascienza del tutto fuori luogo. Al tempo stesso, però, l’intuizione di vivere certi scontri da una prospettiva (questa sì) così inconsueta risulta felice a priori: in certi film i carri armati rappresentano per certi versi degli esseri autonomi, la cui vista interna ci è quasi sempre preclusa, quali che siano le legittime ragioni. Qui non c’è trincea, armate che avanzano ed indietreggiano; solo questi carri che sfilano, e che a un certo punto si danno battaglia a mo’ di mecha ante litteram (e sono due i rimandi alla fantascienza). Con uno scontro finale incredibile quanto si vuole, ma che tutto sommato tiene desta l’attenzione. Certo, vale tutto ciò che ho scritto sopra riguardo al trionfalismo, all’eroismo et cetera; ma una volta inquadrato, Fury il suo lo fa. Non sarà tanto ma non è nemmeno poco.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]

Fury (USA, 2014) di David Ayer. Con Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal, Jason Isaacs, Scott Eastwood, Jim Parrack, Brad William Henke, Jonathan Bailey, Branko Tomovic, Marek Oravec, James Henri, Laurence Spellman, Kevin Vance, Adam Ganne e Sam Allen. Nelle nostre sale da mercoledì 3 giugno.