Home Festival di Venezia Venezia 2015, Francofonia: recensione in anteprima del film di Aleksandr Sokurov

Venezia 2015, Francofonia: recensione in anteprima del film di Aleksandr Sokurov

Il regista russo, Leone d’Oro nel 2011 con Faust, porta alla Mostra un film impegnativo, sperimentale, audace. Francofonia attraversa una fetta di Arte e di Storia, specie in quei punti in cui s’incontrano. L’obiettivo tuttavia è sempre il presente

pubblicato 5 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:02

[quote layout=”big” cite=”Aleksandr Sokurov]Chi sarei stato se non avessi visto gli occhi di chi ha vissuto prima di me?[/quote]

Vedere occhi. Aleksandr Sokurov non insegue altro che questo: lo sguardo, o per meglio dire gli sguardi. Attraverso di loro, quanti più possibile, si possono ricostruire identità, popoli, usanze, in altre parole la Civiltà. E sembra quasi banale riconoscere attraverso chi e cosa passi l’edificazione della Civiltà, specie se europea, per il regista russo. Esatto, l’Arte. È qui che la Storia ha un senso, ovvero nell’essere trasferita attraverso forme d’espressione artistica le più svariate. E in tal senso, la facoltà del guardare – ma, ancor più, proprio del vedere – resta quella la più idonea per apprendere, conoscere e conoscersi

Sono trascorsi tredici anni da Arca russa, il capolavoro di Sokurov che, rispetto al più recente Francofonia, appare forse insuperato per intensità evocativa. Ma ci sono per l’appunto quasi tre lustri di mezzo, anni in cui il mondo è cambiato, il Cinema è cambiato, dunque l’Arte si è regolata di conseguenza. Servirsi di una prosa radicalmente contemporanea, a cavallo tra il gergo visivo di YouTube e quello più ingessato dei documentari che trattano Arte; il cineasta in questione costruisce qualcosa di fresco, forse anche troppo.

C’è però da riflettere sul fatto che le sperimentazioni più ardite e urgenti non arrivino da filmmaker in erba bensì da maestri assolutamente consolidati come Jean-Luc Godard e Terence Malick; Francofonia infatti si colloca all’incirca sulla medesima linea di un Adieu au Langage o di un Knight of Cups, al netto delle differenze di sensibilità che intercorrono fra i tre. E se da un lato quella di Sokurov si pone in maniera leggermente più ruffiana rispetto agli altri due, non si può negare in alcun modo che tutte e tre rappresentino i tentativi più coraggiosi dell’ultimo periodo quanto al lavorio sul linguaggio. Un linguaggio possibilmente nuovo, perciò arzigogolato, proprio perché non ancora codificato. Si va in esplorazione, quindi è inutile pretendere che vi sia un ponte che colleghi una montagna all’altra sopra uno strapiombo che nessuno ha mai attraversato.

Sapessi cosa significhi realmente, e se quindi possa essere il caso di applicarlo al nostro caso, li chiamerei pionieri. Ma appunto, non ho idea di che si tratti. Solo che, essendo oggetto di analisi aree vergini, inesplorate, mancano i mezzi per discuterne; il che rappresenta di per sé una sfida stimolante. Senza per forza costringerci ad interpellarvi come fa Sokurov con i suoi spettatori, quando birichinamente ci domanda: «vi siete annoiati? Non preoccupatevi, sto per finire».

Quello di Francofonia è un viaggio, uno di quelli che sembra raccontato sul momento, mentre lo si vive, non a posteriori. Del racconto dal vivo ne ha l’entusiasmo nel trasmetterlo misto all’emozione del vivere contemporaneamente la vicenda, dunque la distrazione, la dissipazione, l’inseguire gli argomenti in base a ciò che passa estemporaneamente per la testa e poi abbandonarli un istante dopo. È il regista russo che vaga per il Louvre mentre si trova davanti allo schermo del computer nel suo studio, riprende un pensiero che l’ha colpito da un libro letto in precedenza, divaga, fa associazioni, sogna, non necessariamente ad occhi chiusi.

Ripensandoci meglio non sono nemmeno tanto convinto di quanto ho scritto sopra, cioè che Francofonia ci consegni la Storia attraverso l’Arte; ma d’altronde non mi convince a pieno nemmeno il contrario. Se possibile, una mezza risposta la si potrebbe cogliere dallo sfogo con l’amico marinaio la cui nave trasporta oggetti d’Arte: «è assurdo che l’Arte venga trasportata per mare». Mare come metafora della Storia insomma, entrambi capricciosi, e l’Arte a subire tali capricci. In Francofonia si avverte proprio questa tensione a cristallizzare sia l’una che l’altra, senza però sterili aspettative; non a caso alla fine la nave affonda. L’una (l’Arte, intesa essenzialmente come pittura, scultura e architettura) statica, l’altra (la Storia) dinamica; né potrebbe essere diversamente, poiché che si tratti di dinamismo o di staticità trattasi di condizioni connaturate a ciascuna delle due discipline.

Foto, filmati, dipinti, ritratti… tutto è utile per ripercorre una storia, la Storia. Quella francese a cavallo tra Rivoluzione e Seconda Guerra Mondiale, certo, ma non solo. Sokurov ci offre gli strumenti, né unici né per forza privilegiati, per leggere tutto ciò che ci circonda e che ci ha preceduto. Abbattendo ogni confine, anzitutto quello spazio-temporale, per cui non è affatto eccentrico interrogare personaggi del passato oramai intrisi di Eterno, né immaginarsi ad osservare, a pochi metri di distanza, la natura che un tempo predominava laddove adesso sorge il celeberrimo museo parigino. Almeno due, però, li riporta in vita: il direttore del Louvre Jacques Jaujard ed il responsabile per la conservazione dei beni artistici sotto il Terzo Reich von Metternich. Fino a un certo punto è anche su quest’asse che il discorso viene portato avanti, attraverso il rapporto tra questi due personaggi le cui circostanze rendono ostili l’un l’altro ma che, malgrado tutto, si rispettano. E si rispettano proprio in virtù dell’amore viscerale per l’Arte, elemento che rende i rispettivi spiriti affini.

«C’est moi!» esclama di tanto in tanto un Napoleone da chiacchiera al bar, mentre prende letteralmente per mano Sokurov ricordandogli che tutto ciò che vede esiste grazie a lui. Sarà. Nel frattempo Marianne, simbolo della Republica francese, volteggia per quei corridoi spettrali ripetendo a mo’ di mantra il celebre ma frainteso «Liberté, Égalité, Fraternité». L’affresco proposto in Francofonia non mi pare nemmeno così nostalgico, e a negare certe derive lo è il sopracitato linguaggio, che invece è innovativo, provocatorio, di conseguenza anche indisponente. Al contrario, i lampi del film sono tutti rivolti al presente se non addirittura al futuro; perché sì, se parli di Arte e di Storia, con annessi incroci e diramazioni, non puoi che sconfinare nella Politica. Qui però non ci si rivolge ai professionisti, bensì al popolo; è una chiamata alle armi, placida, discreta, ma veemente quanto alle intenzioni. Europei svegliatevi! Da quale sonno? Sokurov non ce lo dice apertamente, anche se è lecito supporre. Intanto la Russia sembra essere un po’ più vicina.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]

Francofonia (Russia/Francia, 2015) di Aleksandr Sokurov. Con Louis-Do de Lencquesaing, Vincent Nemeth, Johanna Korthals Altes e Benjamin Utzerath.

Festival di Venezia