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Io che amo solo te: recensione in anteprima

Storie d’amore multiple convergono in un matrimonio, occasione di riscatto per tutti, in Io che amo solo te. Raffazzonato ritratto, sia nella forma che nella sostanza, di un’Italia che si vuole “vecchia” a tutti i costi, filtrato attraverso un argomentare incerto e perciò maldestro, in cui la commedia è per lo più pretesto

pubblicato 13 Ottobre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 11:53

Damiano (Riccardo Scamarcio) e Chiara (Laura Chiatti) si stanno per sposare. Mancano ventiquattr’ore al lieto evento, che è tale non solo per le rispettive famiglie bensì per Polignano tutta. È ancora la bella Puglia a fare da sfondo, i cui scorci sono meno presenti rispetto ad altri film usciti negli ultimi anni ma che comunque non è mai troppo secondaria. Io che amo solo te però non è soltanto la storia di questi due giovani in procinto di convolare a nozze, perché il loro ‘amore’ è uno in mezzo agli altri.

C’era una volta il cinema (cosiddetto) medio; per tutti e per nessuno, per lo più una paraculata finalizzata a non voler infastidire troppo né pubblico né critica, infilando in tale categoria tutte quelle opere che la critica quasi si vergognava a voler apprezzare perché essenzialmente non abbastanza impegnate. Il sottotesto è che si tratta di storie per lo più limitate, e nelle premesse narrative e nel modo in cui certi film le maneggiano; una convenzione insomma, che non di rado ha tolto dagli impicci certi critici, altre certi spettatori.

Lo scrivo perché il film di Marco Ponti me ne dà più che altro l’occasione, permettendo a chi scrive di chiarire un punto per forza di cose ambiguo. Io che amo solo te è cinema medio solo se con tale definizione ci si vuole riferire, con una certa supponenza peraltro, al target verso cui è destinato, sottintendendo che è un film per anime semplici, dunque essenzialmente per buona parte del pubblico. È un meccanismo dal quale sono ben lieto di prendere le distanze, perché, a differenza di chi ancora crede a certe etichette, il pubblico è ben più eterogeneo di così, e spesso anche più smaliziato, fiutando lontano un miglio un lavoro modesto.

Modesta come è sorprendentemente quest’ultima fatica di Marco Ponti, lo stesso dei gradevoli e spensierati Santa Maradona (che a suo modo fece epoca) e A/R Andata + Ritorno, suoi due primi lungometraggi. Sono trascorsi più di dieci anni, è vero, ma quel regista lì pare irriconoscibile; tanto il modo con cui si accosta Io che amo solo te alla materia appare rozzo, risaputo, troppo incline a compiacere. Per più di metà film vengono reiterate situazioni e battute il cui comune denominatore è la banalità: come l’amico di Damiano che discetta fugacemente, en passant, su quanto il matrimonio oggi sia inopportuno, roba d’altri tempi. Eppure si tratta dello stesso film che, per restare sul pezzo, dedica l’ultima parte (un quarto d’ora circa) alla denuncia pubblica, riscoprendosi “impegnato” sul fronte LGBT con un coming out letteralmente tirato fuori dal cilindro, che proprio sul concetto di matrimonio fa leva, come si dice nell’ambito dello spettacolo, giusto «per far scena»; diversamente dovremmo pensare ad un certo prurito paradossalmente moralista, che vuole questo film in prima linea su un fronte forte, le cui lotte però all’interno del film stesso c’entrano nulla.

Come scritto sopra, è proprio l’argomentare che soffre di una malcelata obsolescenza, come quando si descrive il fratello di Damiano, Orlando (Eugenio Franceschini): scappato da Polignano, la sua fuga si ferma a Bari, eppure la sua sembra la storia di uno emigrato dall’altra parte del mondo con la valigia di cartone, come quei siciliani che decenni addietro venivano tacciati di darsi «aria da continente» per il solo essersi allontanati dallo Stretto. Ma fin qui si tratterebbe di un’ingenuità accettabile, un po’ forzata magari, ma accettabile. Tuttavia, se leggiamo Io che amo solo te anche per ciò che vuole trasmettere ad un livello più alto, ossia fare di questa vicenda una metafora dell’Italia retrograda, mafiosa, oscurantista e bigotta, il passaggio in questione finisce con lo stritolare il discorso. In tal senso ci aiuta non poco l’assordante uscita della madre di Damiano, che in tono netto, affermativo e pure un po’ fiero, grida in faccia alla mamma di Chiara: «i democristiani non sono mai morti!» (o «non moriranno mai», ma il senso è lo stesso) (sic).

Nè pare opportuno rivolgersi più di tanto al romanzo di Luca Bianchini, che chi scrive non ha avuto modo di leggere, se non altro perché è troppo facile prendersela con l’autore di un libro il cui lavoro finisce lì; mentre chi decide che valga la pena trasporlo sul grande schermo si assume la responsabilità circa ogni cosa riguarda il film. Se perciò toni, colori e tesi di fondo appartengono in toto al romanzo, pazienza: a noi del film tocca discutere e poco rileva cosa e in che misura sia stato preso in prestito o meno.

Anche perché emerge una volta di più la differenza tra del materiale destinato alla carta piuttosto che alla pellicola: gli intrecci, le implicazioni in Io che amo solo te trovano nella prima un ambiente forse addirittura ideale per poter essere veicolate, laddove, per dirne un’altra, un Don Mimì (Michele Placido), padre dello sposo, che ama alla follia Ninella (Maria Pia Calzone), madre della sposa, per via di un’importante storia pregressa, rappresenta una di quelle trame interne che non ha modo di essere sviluppata in modo credibile nel contesto di un film di nemmeno due ore, e che perciò consegue tutt’al più l’insperato effetto di sembrare inverosimile, a tutto svantaggio di un tema che meriterebbe tutt’altro trattamento.

Foto | Claudio Iannone

Ecco, questo è il limite più irritante di Io che amo solo te, ossia attardarsi su tematiche che non riesce né intende davvero comprendere, preferendo il luogo comune, la frase ad effetto, il tono marcatamente conciliante, ripetendo cose che già conosciamo non perché siamo più preparati o (Dio ce ne scampi) più furbi; è che semplicemente il dibattito è andato avanti, in alcuni casi pure di molto, dunque stona che un film che si vorrebbe “leggero” si prenda la briga di intervenire senza offrire alcuno spunto bensì spiattellandoci in faccia, persino in maniera maldestra, certi tormentoni.

E se tutto questo non fosse già abbastanza limitante per il film, resta da capire quale sia l’idea di cinema alla base, discorso che accenno appena per non correre il rischio di scadere nella pedanteria. Ma davvero, anche da un punto di vista puramente tecnico, certi dialoghi fuori sincrono in prossimità di taluni tagli o nel corso di un montaggio alternato, non sono ammissibili nell’ambito di un progetto che impiega uno staff di professionisti quali sono tutti coloro che hanno lavorato a quest’opera, neanche fosse il film indipendente girato da una troupe di quattro persone, per lo più con mezzi di ripiego – discorso che di per sé, tra l’altro, lascia il tempo che trova, poiché proprio in termini tecnici è incredibile ciò che si può fare oggi con strumenti alla portata di chiunque.

Quindi tocca anche stavolta prendere atto di un approccio che manca totalmente d’incisività, tanto, troppo ancorato al testo, aderenza che di fatto compromette l’intera operazione. E per chi a questo punto si stesse staccando le unghia a morsi alla luce di quanto scritto poco sopra circa il fatto che il sottoscritto il libro non l’ha letto, prego costui/costei di avere pazienza e cercare di capire. Vi sono romanzi che sono sceneggiature e sceneggiature che sono romanzi; di solito il confine non è nemmeno poi così labile e non serve conoscere per intero come si dipanano le rispettive trame per rendersene conto. Nel caso di Io che amo solo te, paradossalmente, la fonte potrebbe pure non esistere affatto: malgrado ciò, il film in questione risentirebbe a tal punto di un’impronta “letteraria” che stupirebbe qualora non fosse stato tratto da un romanzo. Chi volesse continuare a raccontare (e raccontarsi) che tutto ciò non sia un problema, beh, ecco… non sono d’accordo. Altro che “cinema medio”…

[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]

Io che amo solo te (Italia, 2015) di Marco Ponti. Con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Michele Placido, Maria Pia Calzone, Luciana Littizzetto, Eugenio Franceschini, Antonella Attili, Antonio Gerardi, Dino Abbrescia, Eva Riccobono, Michele Venitucci, Dario Bandiera, Enzo Salvi, Ivana Lotito, Angela Semerano, Crescenza Guarnieri, Uccio De Santis, Angelo De Matteis, Beppe Convertini, Valentina Reggio ed Alessandra Amoroso. Nelle nostre sale da giovedì 22 ottobre.