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Filmmaker 2015, domenica 6 dicembre: si chiude il Concorso, in attesa dei vincitori

Filmmaker 2015: lungo e spossante, Homeland (Iraq Year Zero) resta probabilmente il film di cui si farà più fatica a dimenticarsi in questa edizione. Non solo per la durata. Un film di guerra senza la guerra, per lo meno non quella alla quale, da spettatori, siamo abituati

pubblicato 6 Dicembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 10:44

Ci siamo. Anche questa edizione, la numero 35 ricordiamo, si appresta a chiudersi. Una settimana in cui ci sono stati sottoposti film che altrove chissà se mai avremmo visto, non tutti “indimenticabili”, ma ciò che conta è altro. Lo scriveremo magari al momento di tirare le somme, ma se diamo per buoni i propositi degli organizzatori, per cui l’aspetto pregnante resta l’esporci a «visioni» diversamente inaccessibili, allora sì, anche questo non c’è da lamentarsi. Scoprire come l’ordinario talvolta possa essere straordinario, è una delle cifre che ci più ci appassiona di questo piccolo, quasi intimo Festival (dei sistematici ritardi rispetto alla programmazione diremo pure).

Ultimi due film in Concorso, Le bois dont les rêves sont faits e Homeland (Iraq Year Zero). Di entrambi parleremo in sede di recensione, ché il discorso sarebbe lungo per un misero aggiornamento. Preme però sottolineare quanto alla fine, gira che ti rigira, il documentario abbia avuto la meglio. Chiariamoci, da questa parte Machine Gun or Typewriter? rimane un esperimento oltremodo dignitoso, di cui abbiamo apprezzato sommamente il gusto per il puro racconto, come peraltro scritto in recensione; tuttavia il documentario conferma quell’appeal che certa sperimentazione, per forza di cose, non riesce sistematicamente a generare – e, per esempio, con noi non ci è affatto riuscito relativamente al seppur atteso, ed anche apprezzato, The Sky Trembles and the Earth is Afraid and The Two Eyes Are Not Brothers).

Toccasse a noi scegliere, avremmo già un nome per il vincitore. L’opera monster di Abbas Fahdel è senza compromessi: cinque ore e mezzo di riprese a mo’ di filmino famigliare. È evidente però che questo non possa essere un semplice filmino di famiglia, perché il contesto è quello che precede di poco l’occupazione americana a Bagdad nella prima parte, seguendo lo stato delle cose dopo il bombardamento del marzo 2003. Dinanzi a una durata del genere anche il più volenteroso rischia di farsi da parte, perciò ammettiamo che le quasi sei ore ci avevamo messo in apprensione anche a noi, se non altro perché di seguito. Il film è infatti composto da due parti, che in fondo potrebbero pure essere viste separatamente. Vero, ma sottoporsi in un’unica soluzione a questa storia resta l’ipotesi privilegiata, meno accessibile, ci siamo, ma oggettivamente più efficace. Alla fine si arriva, va ammesso, spossati, ma ci si domanda se più che le ore trascorse non sia il soggetto.

Il regista iracheno, da anni in Francia, torna in Iraq dopo circa quindici anni di assenza. Siamo dopo l’11 settembre, e Saddam Hussein incita il suo popolo ad accettare la sfida lanciata dagli USA (come se ci fosse stato modo di sottrarvisi…). A una certa, nutrita fascia di critici piace tanto quando il regista non prende posizione, rimanendo più o meno neutrale; qui Fahdel ci pare però più intelligente di così e la sua non è neutralità, bensì supporto visivo a una tesi specifica, che va però oltre il mero “abbasso l’America” e via discorrendo. Operando scelte che rivelano oltremodo calibrate, si tratta sostanzialmente di mettere assieme lui solo sa quante ore di girato mentre alcuni tra i suoi amici, ma specialmente tra i suoi familiari, vivono la vita di tutti i giorni in quell’area del mondo così turbolenta. Il premio più scontato? Forse. Ma chi può dirlo? Il verdetto sarà ufficializzato tra qualche ora e, ovviamente, ve ne metteremo a parte. Seguirà il film di chiusura, che quest’anno è Antonia di Ferdinando Cito Filomarino.

Venerdì 4 dicembre: sale in cattedra il compianto Manoel de Oliveira

A marce forzate ci si avvicina alla fine di questa edizione numero 35 del Filmmaker. Ieri abbiamo visto The Sky Trembles and the Earth is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, ultimo lavoro di Ben Rivers. Uno degli aspetti che ci ha più colpito è che il film dal tono visivo più cinematografico, quanto alla fotografia, è in realtà, fra tutti quelli visti in Concorso sino ad ora, il meno ancorato alla narrazione. Se si va a leggerne la descrizione se ne ricava la strenua difesa, da parte di Rivers, dell’ambiguità di fondo. Va bene, ma più di un’ora e mezza a tali condizioni diventa provante, come se il video-artista avesse preso il sopravvento sul cineasta. So che mi sto inoltrando su un terreno accidentato, perché poi toccherebbe illustrare le differenze tra le due cose, asserire l’ovvio, ossia che il cinema non è solo narrazione e via discorrendo. Non lo faccio. Rilevo solo che il discorso del regista britannico è di per sé poco permeabile, né l’autore, come già accennato, tenta di lavorare sulle asperità di un discorso magari interessante (ci è parso di capire ci si attardi anche sulla valenza dell’Arte in un contesto primitivo nell’accezione meno nobile del termine), ma che emerge a rari tratti. Di certo è quello che abbiamo meno gradito fino ad ora.

Tuttavia per me il 3 dicembre 2015 rimarrà il giorno di Manoel de Oliveira, che col suo Visita ou Memórias e Confissões (Conversazione privata) ci ha fatto letteralmente sussultare. Cosa è successo? Ad inizio anni ’80 il nostro si è trovato in un periodo di ristrettezze economiche: la casa in cui ha vissuto per quarant’anni rischia il pignoramento e le scadenze impongono la vendita immediata. Ne scriverò a parte, perché di questo Oliveira c’è davvero bisogno; un cineasta che parla di purezza, peccato, redenzione, salvezza, dannazione, bellezza, tutte cose che sono state per lo più relegate in soffitta, all’interno di un baule di cui non si vede l’ora di sbarazzarsi. Eppure il regista portoghese parla di tutto questo partendo dal basso, ripercorrendo la sua storia e quella della propria famiglia, schematicamente; la poesia, se così la si può chiamare, è relegata alle immagini e alle brevi conversazioni tenute da due estranei che si addentrano in questa casa labirintica a più piani (e la pianta dell’abitazione ha una ragione più profonda).

Oggi è il turno di uno dei più attesi, ovvero Le bois dont les rêves cont faits di Claire Simon. Di ambientazione bucolica, quasi due ore e mezza in cui viene osservato un ecosistema sociale al quale forse non siamo abituati, quasi un sopravvissuto di un’altra epoca. Speriamo bene. Si tratta peraltro del penultimo in Concorso, dopodiché toccherà al film monster di cinque ore e mezzo dell’iracheno Abbas Fahdel, Homeland (Iraq Year Zero). Come a dire che, fino all’ultimo, i curatori hanno inteso provocare, perché in fondo ci pare che a questo essenzialmente il Filmmaker: mettere alla prova attraverso le più svariate visioni, evitando il familiare così da costringerci ad uscire dalla nostra spesso mortale confort zone.

Mercoledì 2 dicembre: la rabbia di Wilkerson ed il resoconto non ideologico di Incalcaterra

Dopo il forzato giorno di pausa, eccoci abili e arruolati per il quarto giorno di Filmmaker. Archiviato l’appuntamento con In Jackson Heights (sala piena per l’occasione), si torna a quello che è un po’ il regolare svolgimento dei lavori, quantomeno per noi. Nella giornata di ieri abbiamo infatti assistito alla proiezione di Chapare, nell’ambito della retrospettiva a Daniele Incalcaterra. Siamo nel 1990 ed il regista si reca in Bolivia per registrare le tensione tra coltivatori di coca ed esercito. L’argomento è complesso e per chi, come chi scrive, non è tanto addentro nella questione specifica non è certo agevole entrare nel merito. Sta di fatto che la coca, o per meglio dire le foglie di coca, all’epoca rappresentavano una risorsa fondamentale per i coltivatori boliviani. A seguito di alcuni provvedimenti presi però dallo Stato, si è deciso di contrastare ferocemente la sua coltivazione, attirando le inevitabili ire di quella parte di popolazione che con la coca ci ha sempre campato, in alcuni casi letteralmente.

Aleggia la presenza degli Stati Uniti sopra la faccenda, senza che però Incalcaterra s’inoltri in complesse costruzioni: lui è lì per riprendere ciò che sta avvenendo, e lo scenario è devastante. La macchina da presa, in più passaggi, si trova filmare i cadaveri di persone uccise dai militari, lasciati per terra in una pozza di sangue come in un’ordinaria guerra. I sindacati cercano di tutelare le ragioni del popolo, ma anche lì la vicenda risente di diverse diramazioni che non sarebbe stato possibile cogliere se lo stesso regista, a fine proiezione, non avesse illustrato la situazione: sostanzialmente vi erano tre gruppi, di cui solo uno non intendeva piegarsi a questa iniziativa forzata dello Stato, perciò totalmente contrario a qualunque tipo d’accordo che mirasse alla riduzione massiccia della coltivazione di coca. Vuoi o non vuoi, si resta sempre scossi, malgrado non scandalizzati, dall’idiozia dell’uomo, che trova sempre delle ragioni a suo dire accettabili per farsi addirittura la guerra in casa. Emerge infatti lo spaesamento di tutti, militari e civili, messi contro non si capisce bene da chi anche se si sa da cosa. Assurdità di cui è emblema la parte iniziale del documentario: qui Incalcaterra riprende un gruppo di prigionieri costretti ai lavori forzati per aver avuto a che fare con la droga, sotto forma di uso o spaccio che fosse. Sapete cosa raccolgono da mane a sera? Esatto! Foglie di coca. E che fine farà tutto quel raccolto non è difficile immaginarlo.

Machine Gun or Typewriter? è invece l’ennesimo, gradito esperimento proposto quest’anno al Filmmaker, che fino ad ora, in Concorso, ha proposto solo progetti interessanti. Qui l’artista americano Travis Wilkerson si adopera in una sorta di neo-noir (definizione forse impropria, dato che al cinema tale etichetta indica produzioni risalenti già alla fine degli anni ’90) dai toni romantici. Apocalittico pure, certo, come d’altronde viene definito il suo protagonista. Ma ciò che colpisce è la forma, ovvero una serie di istantanee in movimento che raccontano questa maledetta storia d’amore tra due “dissidenti”, sullo sfondo di una Los Angeles oramai senza speranza. Volendo, un’evoluzione rispetto a opere come La jetée, cortometraggio del ’62 basato su una struttura analoga. Aspettate la nostra recensione però. Oggi, invece, ci sono Schicht e Santa Teresa y strass historia, entrambi in Concorso.

Lunedì 30 novembre: il Duomo di Milano protagonista, mentre si conclude Arabian Nights

E Arabian Nights è archiviato. In attesa della nostra recensione, val la pena spenderle due parole. Inglesi e francesi non mentivano: il film di Miguel Gomes è uno dei più importanti del 2015. Riuscito pur nella sua imperfezione, avevamo lasciato la sala frastornati dopo il Volume 2, il migliore dei tre. E questo forse contribuisce a confermare, per vie traverse, la natura unica ed inscindibile dell’opera, che a parere di chi scrive va non soltanto visto per intero ma nel preciso ordine voluto dal regista portoghese. La qual cosa è indicativa se si pensa alla regola non scritta di Wes Craven, per cui di solito il capitolo di mezzo di una trilogia è sempre quello più debole. Non qui, il che, come già scritto, corrobora l’asserzione secondo cui Arabian Nights è opus unicum.

Non andiamo oltre dato che preferiamo sviluppare meglio in appropriata sede. Ma ieri è anche stato il giorno del secondo film in Concorso, ovvero L’infinita Fabbrica del Duomo di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Un film pressoché muto il loro, proprio per quest’assenza di materiale umano che però in realtà presenza di altro, anzi altri. Suppongo infatti che la scelta di inserire poche persone, senza peraltro mai inquadrarle con particolare attenzione, costituisca una forma di rispetto, se non altro di ossequiosa rievocazione, di tutti coloro che non possono essere ripresi. Ci riferiamo alla moltitudine di gente che ha contribuito alla costruzione della Cattedrale di Milano nel corso degli ultimi sette secoli circa. Anche limitatamente a questo film preferiamo concederci più spazio in recensione, ma questo garbo, quasi una delicatezza da parte dei due registi, riscalda e quasi addirittura impietosisce. E sebbene dia l’impressione che la struttura tenda a cedere qualcosa in termini di efficacia narrativa, è pur vero che il tono pressoché contemplativo, mai scontato, tende ad elevarne la portata.

Oggi giornata, per quanto ci riguarda, piuttosto magra. Non per gli altri però, visto che in serata presso lo Spazio Oberdan si terrà la proiezione di In Jackson Heights, altro colpo da maestro per Frederick Wiseman, che stavolta osserva lo svolgersi della vita nel movimentato quartiere da cui prende il nome questo documentario. Qualora vogliate farvi un’idea, qui sulla sinistra trovate la nostra recensione da Venezia. Sì, è entusiasta. Tenendo un occhio già a domani però, contraddistinta da una tappa della retrospettiva a Daniele Incalcattera e da un altro film in Concorso, da noi piuttosto atteso, ovvero Machine Gun or Typewriter? di Travis Wilkerson. Ma di questo, a suo tempo.

Domenica 29 novembre: parte il Concorso con lo straniante By Our Selves

Se n’è andata la prima giornata del Filmmaker. Una giornata in cui si sono consumati appuntamenti rilevanti, a partire dal primo film in Concorso, ovvero By Our Selves di Andrew Kötting. In più rispetto a quanto già scritto in sede di recensione, possiamo giusto integrare che si tratta di un’ottima partenza. Kötting riesce a girare un film complesso in modo semplice, il che non è un ossimoro, basta guardare a come renda tutto sommato godibile anche ai meno avvezzi il suo ritratto di questo John Clare camminatore. Seguendo una struttura chiaramente anti-narrativa, ma non per questo che tiene alla larga, anche perché vi troviamo commenti e note umoristiche che smorzano la solennità di certi passaggi.

Ma ieri è stato anche il turno di uno degli appuntamenti a cui gli organizzatori tenevano maggiormente, cioè No Home Movie di Chantal Akerman. Mentiremmo se ci dicessimo entusiasti, perché quello della regista belga è uno scorcio talmente intimo che, per quanto accessibile, tende comunque a non accompagnare affatto noi che lo seguiamo. Non dico che a certe condizioni fare presa sullo spettatore debba avere troppa rilevanza, ma certe situazioni spesso finiscono con l’essere impermeabili a chi non si è ritrovato a vivere non soltanto esperienze analoghe ma quella specifica che ci viene mostrata. Senz’altro gli estimatori della cineasta troveranno pane per i loro denti, perché in fondo la Akerman, concentrandosi sulla madre, parla di sé stessa. Si sorride, a tratti in maniera amara per la goffaggine di questa anziana signora che sa di avere poco tempo ed intende dedicarlo a nutrire il rapporto con le persone care, in particolar modo con Chantal. In certi frangenti però la regista tira dritta per la sua strada, e se deve mostrare cinque minuti di traversata nel deserto in auto senza che accada alcunché non ci pensa due volte e procede. Ripeto però, per quanto intimo il ritratto è comunque distaccato; la Akerman è brava nel dare l’impressione che si stia assistendo a qualcosa di profondamente personale, ma ehi, questo è il cinema, quel regno dove il montaggio stabilisce ogni legge. Dunque ci si deve “accontentare” di un omaggio, senza dubbio sentito, non dubitiamo importante per chi l’ha tributato, ma non per forza calamitante.

In serata è toccato al Volume 2 di Arabian Nights, Il desolato. Impressione? In attesa dell’ultima parte, questa di mezzo è una bomba. In più conferma quanto avevo in qualche modo preannunciato in occasione del primo appuntamento con questo nostro diario, ovvero che non ci si può limitare a parlare di un solo Volume senza riferirsi agli altri. Qui per esempio ritorna il sindacalista, il che non sarà indispensabile al fine di seguire la trama, ma lo è senz’altro se si pensa all’impostazione che Gomes dà alla sua opera. Il Volume 2 brilla di luce propria da un lato, mentre dall’altro non può che essere debitore dell’introduzione e delle premesse poste nel primo, a cui è toccato il gravoso compito di iniziarci a questo susseguirsi di racconti surreali ma che ci parlano in maniera oltremodo incisiva della realtà. Oggi, con il Volume 3, finalmente chiuderemo il cerchio. E saranno state più di sei ore.

Sabato 28 novembre: apre Arabian Nights di Miguel Gomes

Sinceramente avevamo smesso di crederci. E come sempre accade, quando a certe cose ci si sforza a non pensarci, ecco che, in un modo o nell’altro si palesano. Arabian Nights l’avevamo malamente perso a Cannes; malamente perché abbiamo realizzato subito che uno dei film più attesi della passata edizione in quel della Croisette era un lusso che non avremmo potuto concederci. Ma i Festival autunnali sono lì anche per questo, perciò ecco sia Torino che Milano intercedere per noi e darci l’opportunità di recuperare quello che, sia a detta dei Cahiers du Cinéma che di Sight and Sound, è uno dei film migliori del 2015.

Qualcosina in più però ha ottenuto il Milano Film Network, al cui giro il Filmmaker appartiene: saranno infatti loro a distribuire Arabian Nights in Italia nel 2016. Opera imponente, poco più di sei ore di film diviso in tre parti. La prima, ossia L’inquieto, ha ufficialmente aperto ieri sera questa nuova edizione. Di quelle che, stando alle parole del direttore Luca Mosso, comincia sotto il buon auspicio dei risultati ottenuti in questi ultimi anni, con un’affluenza di pubblico tra i 20 e i 30 anni notevole, segno che esiste una richiesta verso certo cinema meno convenzionale, senz’altro più impegnativo ma non per questo necessariamente impegnato. Altro dato interessante riguarda l’affluenza in sala, relativamente alla stagione cominciata da qualche mese, ma anche ai Festival, malgrado tutto e tutti.

Insomma, alla vecchia e forse oramai stantia diatriba sulla (presunta) morte del cinema, c’è chi discute e chi si rimbocca le maniche. Tra quest’ultimi non troviamo però solo gli organizzatori del Filmmaker così come di altre rassegne, bensì anche tutti coloro che abbracciano simili progetti pur nel ruolo di spettatori, di cronisti, dunque anche noi. Inutile girarci attorno, perché le problematiche ci sono e non solo a carattere economico. Tuttavia proprio questa penuria di risorse parrebbe aver messo in moto un processo di responsabilizzazione, termine che significa tutto e niente, vero. Diciamolo allora secondo il vecchio adagio: le ristrettezze aguzzano l’ingegno.

Con in mente il solito obiettivo, ossia soffermarsi sul cosiddetto cinema del reale, il Filmmaker propone dieci titoli in Concorso internazionale. Un Concorso in cui Milano è presente, con L’infinita fabbrica del Duomo di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Altro italiano in lizza è Leandro Picarella, il cui Triokala ci porta dall’altra parte dello stivale, in Sicilia, tra magia e superstizione, cifra inconfondibile dell’isola. Abbiamo Le bois dont les rêves sont faits della francese, nata però a Londra, Claire Simon, che esplora il Bois de Vincennes e la variegata umanità che lo bazzica. Homeland (Iraq Year Zero) di Abbas Fahdel, che ci racconta quei luoghi prima dell’invasione americana, non durante la guerra. Ben Rivers, cui il Filmmaker ha dedicato una retrospettiva nel 2012, porta invece The Sky Trembles and the Earth is Afraid and The Two Eyes Are Not Brothers, del quale preferiamo riportarvi le parole degli organizzatori: «si colloca in quella terra di confine tra il documentario, il fantasy e la favola». Hoc sufficit. Santa Teresa Y Otras Historias traspone un romanzo di Robert Bolaño, cileno ma che per anni ha abitato in Messico; diretto da Nelson Carlo de los Santos Arias, che intercetta anch’egli quel punto di congiunzione tra documentario e finzione, parlandoci di Ciudad Juárez, al confine tra Messico e USA. Oltremodo interessante Machine Gun or Typewriter? di Travis Wilkerson, che descrive «la ricerca disperata da parte di un uomo del suo amore perduto attraverso il programma di una radio pirata». Per finire, By Our Selves di Andrew Kötting e Schicht di Alex Gerbaulet. Fuori concorso c’è invece Frederick Wiseman con il suo In Jackson Heights, film che abbiamo amato a Venezia.

È tutto? Beh in realtà no. Ma se per sezioni come Prospettive, Cinema del Futuro, Fuori Formato e la retrospettiva sul lavoro di Daniele Incalcaterra vi rimandiamo direttamente al sito ufficiale del Festival, due parole precise tocca spenderle sugli Eventi Speciali. Quest’anno infatti avremo No Home Movie di Chantal Akerman, film molto intimo della regista belga scomparsa di recente, nonché suo ultimo lavoro. C’è poi Visita ou Memórias e Confissões dell’instancabile Manoel de Oliveira, anch’egli venuto meno quest’anno dopo oltre cento anni di vita. Ultimo, ma non meno rilevante, Franco Maresco col suo Gli uomini di questa città io non li conosco – Vita e teatro di Franco Scaldati, film anch’esso visto a Venezia e decisamente in linea col tenore del Filmmaker – anche perché, l’ultimo Maresco in particolar modo, rappresenta un ottimo esponente del cinema al quale gli organizzatori intendono dare risalto.

Il resto lo lasciamo dire alla settimana che ci aspetta. All’incirca sette giorni in cui tenteremo di raccontarvi il Filmmaker partendo proprio da ciò che vi abbiamo segnalato. E promettendovi già da ora la recensione di Arabian Nights, per cui opteremo per la soluzione unica; dopo aver visto la prima parte, infatti, è evidente che la divisione sia più rivolta ad agevolare la fruizione dell’opera, unica, piuttosto che parlare di tre film a sé stanti, per quanto legati. Un’impressione che contiamo di sviluppare con maggior scrupolo proprio in quella sede, poiché il lavoro di Gomes è di estremo interesse, oltre che, entro una certa qual misura, anche atipico. A voi non resta che accompagnarci, come sempre.