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1981: Indagine a New York – recensione in anteprima

Dopo la parentesi in alto mare con il sorprendente All is Lost, J.C. Chandor torna a New York. 1981: Indagine a New York – A Most Violent Year è un crime movie sui generis, funereo, ben inserito nell’esigua ma sempre più notevole filmografia del regista di Margin Call

pubblicato 31 Gennaio 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 09:04

Anna: Questa è una guerra.
Abel: Non è vero.
Anna: Davvero? Però per loro lo è.
Abel: Non per me.

Abel Morales (Oscar Isaac) è un imprenditore di successo che vive nei pressi di New York. Uomo tutto d’un pezzo, che si è fatto da solo, come si diceva un tempo, Abel lavora nel settore del gasolio, dove in quegli anni la concorrenza è estremamente agguerrita. Tale è il giro di denaro che i federali hanno messo sotto inchiesta i maggiori operatori locali, ed Abel rientra a pieno titolo nella categoria.

Sono anni durissimi, in cui, per restare a galla, bisogna essere disposti letteralmente a tutto. Ma Abel non è solo; con lui la sua bellissima ed intraprendente moglie, amica e socia in affari, Anna (Jessica Chastain): donna dal carattere forte, figlia di un boss della malavita dal quale ha preso moderatamente le distanze, sebbene il rapporto con la famiglia d’origine non venga in alcun caso realmente chiarito. È questo il quadro di 1981: Indagine a New York (d’ora in avanti A Most Violent Year, titolo originale).

J. C. Chandor ha appena tre film all’attivo, eppure cominciano ad emergere alcuni leitmotiv che il nostro ha in più di un’occasione reiterato. Tanto per cominciare le dimensioni dei suoi film, “piccoli”, pressoché familiari. Margin Call si focalizzava su una vicenda di portata ben più imponente rispetto a quanto è possibile cogliere, il che è voluto: non a caso la vicenda si svolge nel giro di una notte o poco più, mentre il tutto avviene per lo più in interni. Lì Chandor ha avuto non solo la furbizia, ma anche il buon senso, di un approccio che non tentasse minimamente di esaurire la questione, drammatizzando la cronaca di una notte che ha sì cambiato il corso della storia recente, senza però avere la pretesa di andare oltre.

In All is Lost l’impressione di cui sopra è ancora più netta: un uomo su con l’età, di cui non sappiamo praticamente nulla, s’imbatte in una terribile tempesta mentre naviga da solo a bordo della sua barca. Più piccolo di così! Eppure è preziosa la capacità di Chandor, che nel mettere in scena storie tutt’altro che dispersive, in realtà riesce andare incredibilmente in profondità. Anziché espandersi in verticale, insomma, lo fa in orizzontale, fermo restando che i suoi sono personaggi a tre dimensioni, non mere comparse che servono a una storia. Al contrario, la storia, le storie, sono loro, ciascuno di loro.

Così è anche in A Most Violent Year. Per descriverci un contesto, finanche un’epoca, Chandor fa la cosa più difficile, ossia quella meno complicata: seguire da vicino le storie di pochi personaggi. In particolare quella di Abel, imprenditore di origini ispaniche, incarnazione del sogno americano, che attraverso le sue peripezie viene messo a dura prova. Nessuno sembra infatti avere preparato il nostro a ciò che sottende lo slogan più riuscito di sempre, se non altro il più esportato e con maggior successo. L’american dream non è per tutti; o per lo meno, è per tutti quelli che sono disposti a servirlo. In uno dei momenti decisivi del film (ce n’è più di uno a dire il vero), Anna rinfaccia al marito di non aver voluto vedere la realtà dei fatti nel corso degli anni perché troppo preso dal proprio ego. E non si stenta a crederlo. Affatto!

A Most Violent Year è infatti un film funereo, inesorabile, attraversato da una cappa appiccicosa di lutto. Morti non sono loro, coloro che entrano ed escono dall’inquadratura, bensì tutto il resto: finché restano dentro quell’immagine giallognola, ciascuno di quei personaggi viene come imbevuto da quest’aria di morte, da questo puzzo che va al di là della mera illegalità. Chandor non emette giudizi su ciascuno di loro, poiché ognuno fa quello che deve (non semplicemente, ed in maniera assolutoria, quello che può); la vicenda sulla quale dirige il nostro sguardo è torbida, spaventosa, poiché sembra fagocitare tutto e tutti.

Rosseau e Darwin si danno appuntamento in questo banchetto dell’orrore, dove sopravvive solo il più adatto, ovvero il più forte, che in questo caso è colui/colei che accetta un ambiente regolato da dinamiche inumane. Attraverso, come già accennato, la parabola di un singolo, Abel, il cui percorso ce lo consegna in un modo all’inizio ed il suo contrario alla fine. Ma ciò che desta maggior sgomento è che in realtà l’Abel dell’ultima inquadratura è lo stesso identico della prima, proprio a livello interiore. L’ambizione è la stessa, la sua brama di superamento è immutata; di diverso c’è solo che ha capito, in corso d’opera, come assecondare questa sua seconda natura.

Ci è perciò dato d’intercettare già alcune coordinate circa il cinema di Chandor, uno di quelli in cui il pericolo è costantemente dietro l’angolo, incombente. I suoi personaggi sono sempre in balia di qualcosa che li sovrasta, mettendo radicalmente in discussione ciò che realmente sono o pensano di essere; in alcuni casi ne restano stritolati, come Will Emerson (Paul Bettany) in Margin Call; in altri ne vengono a capo, come l’uomo in barca interpretato da Robert Redford in All is Lost; in altri ancora si pongono a metà strada, tra il successo e la sconfitta, e questi è proprio l’Abel Morales di A Most Violent Year.

C’è tanto spirito americano nei film di Chandor, che è fra i pochi registi statunitensi a confrontarsi in maniera così lucida ed efficace con un sistema che dopo decenni sembra quantomeno scricchiolare. Lo fa legandosi ad una tradizione che non nega affatto, basato sul cinema della suspense, dell’affabulazione, quello che, in un modo o nell’altro, ci ha svezzato un po’ tutti. Seguendo un percorso consapevole, e su più fronti; delle convenzioni, dei ruoli, delle sensibilità e del tenore di certo modo di fabbricare film lì dove si è formato. A Most Violent Year, in questo senso, rappresenta anche una dichiarazione piuttosto eloquente; con questo suo terzo lavoro Chandor prova a costringere la sua storia, quella del suo Paese, a fare i conti con sé stessa. Abel incarna ben più del sogno americano: implacabile, temerario, ambizioso, sotto certi aspetti persino eroico. Tanto che a Chandor non serve scrivere come andrà a finire la sua storia, che alla fine del film praticamente ha inizio; in un modo o nell’altro, lo sappiamo già. L’abbiamo vista centinaia di volte.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]

1981: Indagine a New York (A Most Violent Year, USA, 2014) di J.C. Chandor. Con Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo, Alessandro Nivola, Albert Brooks, Elyes Gabel, Catalina Sandino Moreno, Peter Gerety, Christopher Abbott, Ashley Williams, John Procaccino, Glenn Fleshler, Jerry Adler e Annie Funke. Nelle nostre sale da giovedì 4 febbraio.