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Cannes 2016, Io, Daniel Blake: recensione del film di Ken Loach in Concorso

Festival di Cannes 2016: con più delicatezza del solito, Ken Loach ci porta nella Newcastle di un ultracinquantenne intagliatore alle prese col degrado e l’assurda burocrazia disumanizzante

pubblicato 13 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:28

Dan (Dave Johns) ha un bel problema. Reduce da un attacco di cuore, tutti i medici che lo hanno avuto in carico gli hanno proibito di tornare a lavorare. Il problema è che una burocrate non la pensa allo stesso modo, scaraventando perciò Dan in quell’inferno fatto di regole e regolette da cui è pressoché impossibile divincolarsi. Ci prova Daniel Blake, e questa è la sua storia. Ma in fondo è quella di tanti.

I, Daniel Blake è il film che t’aspetti da Ken Loach, né più né meno. Chiariamo che, per quanto mi riguarda, tale considerazione va accolta positivamente; è chiaro però che non tutti tifano per Loach ed ancor meno per la sua sensibilità verso quella parte di popolazione verso cui da sempre coltiva una particolare simpatia. Chiamiamoli genericamente lavoratori, sebbene oggigiorno anche il regista britannico si ritrova a doversi adattare ad un contesto che nel corso dei cinque decenni in cui ha fatto cinema è cambiato.

Quel pronome iniziale, quell’Io, potrebbe, magari definitivamente, mettere la parola fine a chi descrive il cinema di Loach come principalmente politico (che poi, davvero esistono film “non politici”?). Ad ogni modo, non una classe, non un ceto, bensì una persona, con tanto di nome e cognome: lui è il protagonista, mentre si sforza di non farsi ridurre, ridimensionare. Il discorso l’abbiamo già ascoltato altre volte: oramai siamo sigle, numeri di conto corrente, fiscali, abbreviazioni; questo è ciò che che ci ha regalato il progresso. E per renderci edotti dell’esatto contrario, ossia dell’umanità del suo personaggio, Loach non cerca vie alternative, bensì quelle più scontate. Dan è una brava persona, aiuta chiunque può, quando può; al tempo stesso nessuno gli nega aiuto, che lui sistematicamente ma con garbo rifiuta.

Un giorno incontra Katie e qualcosa scatta. Vero che la sua amata moglie è morta, ma Dan vede in quella ragazza con due figli a carico e nemmeno un centesimo in tasca la figlia che non ha mai avuto. Vedete? È tutto molto semplice, lineare, che è un po’ la cifra di Loach. Anche quando muta leggermente pelle, leggasi montaggio, quelle dissolvenze in nero si integrano comunque, come facessero parte della poetica del regista. Dopo cinquant’anni a quest’ultimo non interessa più sperimentare chissà cosa, lanciarsi in un nuove forme: gli interessano le storie, come prima e più di prima.

La macchina che inghiottisce Daniel è stupida, ma la sua stupidità trae linfa e fondamento da quella di coloro che la servono con uno scrupolo che, talvolta loro malgrado, può diventare ignobile. In tutto questo processo non c’è spazio per l’uomo, ma il protagonista non ci sta e grida a gran voce quel I (io) non proprio british, essenzialmente perché sospetto di «impoliteness», come dicono da quelle parti. Al diavolo l’etichetta però quando di mezzo c’è la sopravvivenza. I, Daniel Blake è perciò l’immancabile scorpacciata d’ingiustizia sulla quale Loach si attarda col solito piglio, suscitando indignazione quanto basta attraverso una serie di episodi più o meno forti.

Su tutti, impossibile non citare quella che vede coinvolta Katie presso un banco alimentare: morta dalla fame, si apre una scatoletta di nascosto e mangia ciò che vi si trova al suo interno con la mano. È il grado zero, il punto in cui il fondo è già stato raschiato e perciò non resta che scavare. In quel frangente partecipiamo della vergogna di Katie, ci sentiamo estremamente a disagio per lei, alcuni addirittura incazzati. Incazzati per via di un sistema di stampo calvinista che ancora oggi, non lo dice ma lo pensa, crede fermamente che essere poveri o meno sia un po’ come avere i capelli neri o rossi; oppure, che chi non ha nemmeno gli occhi per piangere in fondo è perché se lo merita («Dio lo vuole»).

Può sembrare naïf talvolta Loach, non al punto però da pensare che povero=buono, un’equazione alla quale non ha mai creduto, e alla quale non crede nemmeno qui: quando un addetto alla sicurezza vede Katie in difficoltà, fingendo di aiutarla alla fine le propone un lavoro da escort. L’abilità di Loach, mi pare, sta nel non rimestare affatto nello squallore di certi scenari, riuscendo sempre a trovare quella nota positiva, toccante, che può addirittura far stare bene. Perché, nonostante tutto, il regista di Cathy Come Home non ha smesso di avere fiducia nelle persone.

Il rovescio della medaglia sta in un cinema talmente basilare che non a tutti potrebbe interessare tornarci ancora e di nuovo. Un modo asciutto, rispettoso, piuttosto diretto di raccontare, specifico nel suo servirsi di un certo humor utile non soltanto a stemperare, bensì a rendere ancora più verosimili le sue storie, che vivono degli ambienti in cui si svolgono. Anzi, in nessun altro posto potrebbero accadere allo stesso modo. Il solito Loach. Semplice ma con una dignità precisa.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]

I, Daniel Blake (Regno Unito, 2016) di Ken Loach. Con Hayley Squires, Natalie Ann Jamieson, Dave Johns, Micky McGregor, Colin Coombs, Bryn Jones, Mick Laffey, Dylan McKiernan, John Sumner e Briana Shann.

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