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Italia Horror Underground: intervista a Giulio Muratore

Una lucida e obiettiva analisi sul cinema horror italiano nel saggio “Italia Horror Underground” di Giulio Muratore.

pubblicato 20 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:21

Quante volte ci siamo chiesti che fine ha fatto il cinema di genere italiano un tempo vanto italico e oggi praticamente inesistente? E’ la stessa domanda che si è posto Giulio Muratore con Italia Horror Underground. Indagine e retroscena di un fenomeno marginale, un saggio che però non si limita a fornire un panorama sulle produzioni horror low-budget rigorosamente “made in italy”, in gran parte relegate a festival specializzati e circuiti cosiddetti underground, ma pone sul piatto una disamina sulle cause che rendono il cinema di genere italiano così di nicchia.

Muratore indica tra le cause di una latitanza dell’horror italiano un’ampia fetta di critica “generalista” e non avvezza ad esempio ad un genere come l’horror, un sistema di finanziamenti statali a dir poco discutibile, un retaggio culturale legato ai cosiddetti film “impegnati” e via discorrendo in un elenco di concause che poi trasformano film come l’ottimo Lo chiamavano Jeeg Robot in “fenomeni”, quando in realtà nella loro unicità rappresentano solo esempi di una mancanza enorme di un cinema di genere italiano che continuiamo ingenuamente e periodicamente a dare per “resuscitato”, senza renderci conto che purtroppo continuiamo a illuderci passando di “fenomeno in fenomeno” e mancando di memoria.

Abbiamo intervistato l’autore di Italia Horror Underground che con la medesima schiettezza che abbiamo trovato tra le pagine del suo libro è stato altrettanto onesto nel fornirci uno sguardo sull’attuale stato di salute del cinema di genere italiano con particolare attenzione per l’horror.

 

Intervista all’autore

Italia Horror Underground”, nuovo titolo della collana Horror Project (UniversItalia), costituisce il primo studio ufficiale sul cinema di genere contemporaneo. Il saggio nasce a seguito di un lungo lavoro di ricerca sul campo, grazie al coinvolgimento diretto di numerose personalità: registi, sceneggiatori, scrittori, addetti ai lavori, ma anche cinefili, sociologi, storici ed economisti del settore, critici del panorama internazionale e i maestri della Vecchia Guardia. Nessuna pretesa di esaustività, ma semplicemente l’aspirazione a fornire un valido punto di partenza per la scoperta di questo fenomeno marginale e ‘sotterraneo’.

 

Dove nasce l’idea per un libro sul cinema di genere e perché la scelta è caduta proprio sul genere horror?

L’idea è nata quasi per caso. Ordinaria serata fra amici, una pizza e qualche birra, poi il film horror di rito. Ma “non è il solito film horror, ragazzi”, dice uno di loro. Si trattava infatti de Il bosco fuori. Un film sporco, a tratti ingenuo, ma genuino nella sua semplicità. Rimasi colpito e decisi così di muovermi verso Roma, che per oltre un anno è diventata la mia città adottiva. Qui ho avuto modo di entrare in contatto con redattori, giornalisti, appassionati, ma anche e soprattutto operatori del settore (registi, sceneggiatori, effettisti) che trovavano il loro luogo deputato di incontro nei piccoli e numerosi festival indipendenti, vero e proprio spazio della cultura underground dove assistere alle proiezioni di film che diversamente non avrei mai potuto visionare.

“Italia Horror Underground” è il titolo del tuo saggio, ma quanto è vasta la dimensione “underground” del cinema horror italiano?

Sinceramente penso che oggi questa dimensione “underground” riguardi tutto il cinema italiano, eccezion fatta (forse) per la commedia e quei (sedicenti) film impegnati. Si tratta di una situazione “globale”, legata all’assenza di una vera e propria macchina produttiva in grado di sostenere tanto il cinema d’autore quanto il cinema di intrattenimento. Comunque la si voglia mettere, non se ne esce: per scrivere un libro basta una penna, per comporre una canzone basta una chitarra, ma per realizzare un film servono i soldi. È un po’ come se Henry Ford avesse fondato il suo business sul volontariato… Tuttavia, il cinema di genere è sicuramente quello che risente in misura maggiore di questa situazione. Questo è probabilmente dovuto anche una sorta di reticenza culturale per cui il cinema di genere è sempre stato considerato un cinema di serie B, salvo poi riscoprirlo a distanza di anni grazie a Tarantino e simili.

Nel tuo libro si parla dei finanziamenti statali e della nascita di un sistema fallace che ha di fatto cannibalizzato il cinema di genere e il verificarsi di situazioni surreali in cui titoli come “Amici miei come tutto ebbe inizio” attingono a fondi stanziati per film di interesse culturale; poi scopriamo che in Nuova Zelanda, la New Zealand Film Commission a suo tempo co-finanziò Peter Jackson permettendogli di portare a termine “Bad Taste” e più di recente ha supportato economicamente anche lo spassoso splatter indipendente “Deathgasm”, non hai la sensazione di vivere su un altro pianeta?

Ormai c’è da stupirsi del contrario. La condizione in cui riversa il cinema italiano è solo la punta dell’iceberg di un sistema marcio che ha intaccato ogni settore della nostra società.

Nel tuo libro si parla di un cinema horror italiano affossato in parte da una critica “generalista” non in possesso degli strumenti adatti ad approfondire un genere complesso e sottovalutato come l’horror e dall’altra da siti specializzati e “fan” che s’improvvisano critici cinematografici, ma che troppo spesso mancano di competenza tecnica e soprattutto obiettività…come se ne esce?

Bella domanda! Personalmente non vedo una via di uscita, come dicevo prima questa situazione è frutto di un retaggio culturale che è difficile sradicare.

 

 

“Morituris” e “Il bosco fuori” sono horror indipendenti citati spesso nel tuo libro, ma se li paragoniamo a progetti come “Evil Dead” di Sam Raimi o “Bad Taste” di Peter Jackson non ti sembra manchi qualcosa che li renda veramente “ficcanti”, inoltre non ti sembra che il cinema indipendente italiano spesso manchi di un comparto recitazione convincente che in un ambito come l’horror è a dir poco vitale?

Bisogna partire dal presupposto che film come quelli di Sam Raimi e Peter Jackson nascono in un contesto produttivo completamente differente dal nostro attuale in cui la sperimentazione visivo-narrativa è sempre stata incentivata e mai soffocata. Certo, spesso il nostro cinema manca di originalità e coraggio ma qui il paragone è decisamente “scomodo”. Per quanto riguarda la recitazione, invece, a mio avviso è una situazione abbastanza generalizzata e non esclusiva dell’horror, dove però quei limiti che una regia d’autore potrebbe ammorbidire finiscono per diventare macroscopici. Siamo forse noi stessi appassionati del genere a pensare che i buoni attori non siano poi così necessari in questo tipo di film? Se così fosse – e per me in parte è così – è la dimostrazione di come tutti noi, chi più chi meno, abbiamo subito quella visione classista di cui parlavo poco fa: cinema di serie A da una parte, cinema di serie B dall’altra.

Nel tuo libro si parla anche dell’avvento del digitale e di un conseguente abbattimento dei costi di produzione, cosa rispondi a chi afferma che il digitale “ammazza” visivamente un genere come l’horror.

Che è una cavolata… Non capisco questo attaccamento nostalgico alla pellicola, è come se volessimo continuare a viaggiare in carrozza oppure ascoltare musica tramite walkman. Ok può essere affascinante, ma è superato no? Io personalmente rimango molto legato alla pellicola, a quella grana e a quel calore, tuttavia i suoi costi sono diventati insostenibili per una produzione. Il fatto che i vari Tarantino, Winding Refn o J.J. Abrams abbiano deciso di non abbandonare questa strada non è indicativo, stiamo parlando di progetti con alle spalle budget da capogiro che possono giustificare una simile scelta. C’è chi ritiene che l’avvento del digitale abbia messo tutti nelle condizioni di “fare film”, generando di conseguenza una crescita esponenziale delle produzioni a livello numerico ma non qualitativo. Secondo me è una visione piuttosto limitata, conservatrice, un po’ come volersi opporre all’uso di smartphone e social network solo perché c’è chi ne abusa. Ogni cosa che apporta benefici diffusi nella collettività ha il suo rovescio. Perché allora questo pregiudizio verso il digitale?

Io sono uno di quelli che ha visto “Dellamorte Dellamore” al cinema e se ne è innamorato, anche se penso che il miglior lavoro di Soavi resti il thriller-horror “Deliria”; secondo te cosa avevano in più i registi degli anni ’80 che manca ai filmmakers odierni, in poche parole si potrebbe girare oggi un film splatter come “Demoni”?

Non credo sarebbe possibile. I registi degli anni ’70 e ’80 potevano permettersi un grado di sperimentazione che oggi non è più concesso, purtroppo il cinema si è adagiato su determinati standard di linguaggio che mi sembra difficile superare, almeno nell’immediato; inoltre si trovavano ad operare all’interno di una macchina produttiva che non esiste più. Non si tratta di avere qualcosa in più o in meno, ma di una condizione strutturale.

Nel tuo libro parli del problema del nostro cinema horror di non avere un vero e proprio ricambio generazionale, il gap creativo tra veterani come Dario Argento, Lucio Fulci, Lamberto Bava, Ruggero Deodato, Michele Soavi e “nuove leve” come Gabriele Albanesi, Manetti Bros, Ivan Zuccon, Raffaele Picchio, Luca Boni e Marco Ristori può essere in qualche modo colmato?

Si torna sempre lì. L’assenza di una industria cinematografica ha spinto i filmmakers verso una formazione autodidatta, prevalentemente. Questo significa che anche i più fulgidi talenti rischiano di rimanere bloccati in un contesto non fertile, senza risorse e senza adeguate competenze. Banale a dirsi, ma l’unico modo sarebbe tornare a investire.

 

 

Non ti sembra che l’horror in Italia venga trattato come un genere di serie B non solo a livello produttivo, ma anche da una distribuzione troppo spesso poco attenta?

Sicuramente, ma il problema della distribuzione è molto più complesso. Numeri alla mano – rispetto a paesi geograficamente vicini come la Francia, l’Italia propone un menu cinematografico sempre più esiguo numericamente e sempre meno eterogeneo. La distribuzione cinematografica sembra ignorare il fatto che il mercato dell’audiovisivo in generale si sposta verso un consumo on demand, il quale sostituisce la classica formula della proposta di prodotto proveniente dai canali di fruizione tradizionali. Questo significa che quello attuale è sì un pubblico con minori disponibilità economiche, meno propenso a uscire dalla propria abitazione per assistere alle varie forme di intrattenimento, ma anche alla ricerca di una maggiore offerta con più autonomia. A fronte di questa tendenza la risposta della distribuzione italiana è restringere l’offerta anziché aumentarla, invadendo le sale con centinaia di copie dello stesso prodotto. Inevitabilmente a essere penalizzato più di altri è proprio il cinema di genere.

Il cinema spagnolo (Darkness, REC, Fragile, The Orphanage, La Cueva) e francese (Martyrs, Alta Tensione, Them, À l’intérieur, Mutants) hanno dimostrato che il genere horror di stampo europeo è ancora creativamente capace di essere competitivo con le produzioni americane e recentemente anche la Turchia ha dato il suo apporto con l’horror “Baskin”; pensi davvero che le nostre produzioni indipendenti siano in grado di stare al passo con il panorama europeo?

Impossibile, per il semplice motivo che Spagna, Francia e ultimamente anche i Paesi Scandinavi hanno deciso di puntare con forza sul cinema di genere. Tutto questo si traduce in maggiori finanziamenti in fase di produzione e minori ostacoli in fase di distribuzione. Qui da noi un progetto muore ancor prima di nascere o non trova una distribuzione adeguata al momento dell’uscita. Non significa che in Italia non potremo mai avere prodotti degni di nota, ma competere a livello di industria è un’altra cosa.

Non pensi che in qualche modo l’horror indipendente italiano si crogioli un po’ troppo nella sua posizione di genere di nicchia, oppure è una posizione in cui in realtà è costretto in toto?

Può darsi, ma forse questo atteggiamento riguarda più la critica di settore – se mai ne esiste ancora una – che gli operatori. Mi sembra assurdo che un regista trovi soddisfazione nel vedere la propria opera arenarsi, chiunque investe nella realizzazione di un film dovrebbe ambire a un ritorno in termini economici, a costo di andare incontro alla peggiore delle recensioni. Parafrasando Andy Warhol si potrebbe dire che non esiste una cattiva pubblicità, l’importante è che qualcuno parli di te.

 

 

Nel libro si accenna anche ad una generazione di filmmakers cresciuti a pane e film impegnati, tirati su con l’idea che il cinema nella sua totalità debba per forza di cose avere un’impronta autoriale e soprattutto contenuti di spessore, ma l’intrattenimento tout court su cui gli americani hanno costruito un impero economico e su cui un tempo il cinema italiano ha prosperato che fine ha fatto?

Questa contrapposizione ideologica cinema d’autore vs. cinema d’intrattenimento ha ucciso il cinema in Italia. Chi ha detto che un film impegnato non possa essere anche godibile? O al contrario, chi ha detto che un film d’intrattenimento non possa anche toccare tematiche di spessore? Non è forse un autore Tarantino? Mi sembra peraltro che questa visione pregiudiziale abbia spinto una buona fetta di registi a confondere il piano dell’autorialità con quello dell’autoreferenzialità, l’etica con l’estetica.

Tornando al cinema di genere in una prospettiva più ampia, non so se hai visto “Lo chiamavano Jeeg Robot” che ha scatenato un entusiasmo senza pari, lo prendo ad esempio per chiederti se tanta magnanimità sugli evidenti limiti del cinema indipendente horror italiano non derivi dal fatto che non abbiamo nulla con cui confrontarlo realmente; nel senso che visto che non abbiamo un Sam Raimi ci accontentiamo di quello che passa il convento, peccando così in quell’obiettività e severità di giudizio che il nostro cinema di genere ha maledettamente bisogno per crescere, rischiare ed emergere; insomma come cinema italiano non ci diamo un po’ troppe pacche sulle spalle diventando fastidiosamente autoreferenziali?

Magari ci fossero tutte le settimane film come Jeeg Robot! Ok, non sarà un capolavoro però merita a pieno il successo che sta riscuotendo. Finalmente un film sporco, onesto, astuto nel fare dei propri limiti un punto di forza, coraggioso nello scegliere di raccontare una storia di supereroi senza cadere nel cliché americano ma volgendo piuttosto la narrazione a una esigenza tutta italiana (vedi l’ambientazione, le problematiche sociali, la colonna sonora, ecc.).

Qual è il tuo pensiero quando ti dico che il cinema italiano odierno non ha gli strumenti necessari per confrontarsi con un immaginario di stampo fantastico e che spesso l’amatoriale viene nobilitato con la definizione “indipendente”?

Purtroppo questo discorso è vero per tutto il cinema italiano, anzi forse è ancor più evidente in generi come la commedia, il film drammatico o quello d’azione: tutti ambiscono a un determinato status quo artistico (il cinema americano/europeo), nessuno però sembra in grado di costruire storie vere, autentiche, finendo così per (s)cadere nella retorica o nell’autoreferenzialità, rifiutando quel concetto di “commerciale” – inteso nell’accezione più ampia del termine – che dovrebbe essere alla base di qualunque processo creativo. Rivendicare una propria autonomia artistica e realizzare un prodotto destinato a un potenziale mercato sono processi complementari che non vanno messi in antitesi, una cosa non esclude l’altra. Eccezion fatta per alcuni casi isolati, assistiamo così a una sorta di guerra cinematografica fra fazioni avverse: da una parte gli Autori, paladini di un cinema nobile e impegnato (o presunto tale); dall’altra gli Amatori, alfieri di un cinema di rottura quindi indipendente (o presunto tale). In questo modo si è persa quell’idea alta di cinema indipendente, non più inteso come intenzionale processo creativo non vincolato dalle major (decisione) ma divenuto sinonimo di un inevitabile percorso di sopravvivenza senza mezzi, risorse, competenze (condizione).

Le sorti di un cinema horror nostrano, un tempo vanto italico esportabile all’estero e oggi ombra di se stesso, sono quindi affidate ad un circuito indipendente senza mezzi e spesso capace di generare pellicole che vanno dal godibile (vedi lo “Shadow” di Federico Zampaglione) all’imbarazzante (citiamo ad esempio “In the Market” di Lorenzo Lombardi) fino ad opere dalla forte impronta autorale (i lavori di Ivano Zuccon e Domiziano Cristopharo) non in grado però nella loro peculiarità di rapportarsi con lo spettatore medio. Di fronte a questa produzione qualitativamente e creativamente altalenante come vedi il futuro del cinema horror in Italia?

Non esiste futuro senza progettualità, non esiste talento senza investimento. Sarebbe un po’ come mettere un buon pilota al volante di una utilitaria, come potrebbe competere in un circuito di F1?

Concludiamo con uno sguardo al tuo di futuro, prossimo progetto in cantiere?

C’è in ballo la realizzazione di un documentario basato sul libro, ma non posso aggiungere altro.