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Cannes 2016, Personal Shopper: recensione del film di Olivier Assayas in Concorso

Festival di Cannes 2016: il titolo più complesso tra quelli in Concorso viene non a caso fischiato alla prima riservata alla critica. Ma se ogni Festival potesse contare su almeno un film come Personal Shopper sarebbe davvero una gran cosa

pubblicato 17 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:19

Alla fine i primi fischi arrivarono. Sentiti, attesi al varco già da metà film, quando tra i critici in Debussy comincia a serpeggiare un certo imbarazzo, stemperato dalle immancabile risate, alcune delle quali grasse. Cosa dire però di questo Personal Shopper? Olivier Assayas che gira un film di genere, pur immaginando che un film di genere tout court mai potrà essere.

Maureen (Kristen Stewart) è una giovane americana che lavora a Parigi come personal shopper di Kyra, una celebrità che ha all’incirca i suoi stessi anni. Suo fratello, Lewis, è morto di recente a causa di una complicazione cardiaca, dovuta ad una malformazione di cui soffre la stessa Maureen. Il film si apre nel modo più convenzionale possibile per un ghost movie, ovvero con il personaggio della Stewart che si reca presso una villa disabitata per mettersi in contatto con uno spirito che pare vaghi ancora per l’abitazione.

Pochi minuti ancora ed ha inizio un viaggio tortuoso, elusivo, contrassegnato da trovate che spiazzano. Già a metà del film si capisce che Assayas sta giocando, profittando di una delle tematiche di fondo per ammantare il tutto di ambiguità. Eppure questa prima parte è micidiale, una delle cose migliori di tutto il suo cinema, che rilegge il concetto di genere al contempo distaccandosene. Servendosi di pochissimi elementi, mettendo davanti alla macchina da presa soltanto la Stewart, che regge sorprendentemente bene il peso di cui viene caricata: a questo punto si può tranquillamente dire che la protagonista di Twilight difficilmente potrà mai essere abbastanza grata ad Assayas per averla ricostruita da capo.

Echi depalmiani ad un certo punto, dopo un lungo passaggio fatto di scambi di messaggi tramite smartphone, carico di tensione e che pur protraendosi parecchio riesce a tenerci col fiato sospeso. Ma in fondo il modo di procedere di Personal Shopper ricalca un po’ quello del suo montaggio, con ricorrenti dissolvenze al nero anche durante una conversazione, che viene così troncata generando un piacevole effetto straniante.

Alcuni critici potrebbero addirittura sentirsi traditi, o quantomeno sbeffeggiati da un film del genere: si fa davvero fatica a credere che Assayas non abbia tenuto conto di certe possibili reazioni, specie in quei frangenti che i più smaliziati tendono a recepire con disagio. Sprezzante, il regista se ne esce con cose che effettivamente lasciano interdetti, il che è sempre meglio che lasciare indifferenti; tanto che a distanza di ore dalla fine della proiezione siamo ancora qui a domandarci come certi elementi si leghino, sforzandoci di capire come mai un oggetto del genere sia così dannatamente accattivante a dispetto della sua vaporosità. Sforzi che si riveleranno vani.

Né si può dire che Assayas calchi troppo la mano su componenti che sa bene sarebbero potute scoppiargli in mano, un po’ come avviene ne La foresta dei sogni di Gus Van Sant, amaramente impacciato nel suo farci credere di avere anche solo una vaga idea di ciò di cui sta parlando. Non in Personal Shopper, dove tutto è subordinato alla resa del particolare dispositivo costruito da Assayas. Che con questo suo ultimo lavoro fa qualcosa di veramente strano, a cui non siamo più abituati, ovvero giocare con coloro che guardano. Certo, bisogna mettere in conto un certo numero di persone che non accettano di essere stuzzicate; ma forse il regista, non senza una certa ironia, intende scuotere loro per primi.

In fondo Personal Shopper potrebbe non essere stato concepito per essere un “bel film”, bensì un’esperienza distorta verso la quale si sperimenta attrazione e repulsione al tempo stesso. E sembra che a parlare sia lo stesso Assayas quando lo sconosciuto con cui si sta scambiando messaggi le chiede: «cosa ti spaventa? Cos’è che ti mette a disagio»?

Ci si lasci perciò destabilizzare da questo grattacapo senza soluzione, un po’ Poltergeist, un po’ Femme Fatale e pure un po’ 8½ perché sì, trattandosi en passant anche di film su come un film “non andrebbe mai fatto” (!), malgrado il processo di Assayas, a differenza di quello di Fellini, sia decisamente più consapevole. Personal Shopper potrebbe peraltro fungere da Goodbye to Language 3D di questa edizione, mosso com’è da una tensione analoga verso lo stato di questo mezzo e le possibili direzioni che si accinge ad intraprendere. O come il Pasolini di Abel Ferrara, mostrato due anni or sono a Venezia e cassato come pessimo senza nemmeno passare dal via.

Ecco, come già evidenziato, ci sono film che non sono fatti per essere “belli”, “riusciti”, che non debbono consolarci o confermarci nei nostri schemi; opere nate per dividere, perché inquietano, si prendono gioco della nostra capacità di saperli leggere: a quanti piace sentirsi dare implicitamente dello stupido quantunque nessuno abbia inteso farlo? Le reazioni smodate, in un senso o nell’altro, certificano la necessità di qualcuno che metta alla prova, che una volta tanto si assuma la responsabilità di spronarci a credere che una nuova visione, dunque un mondo diverso, sia possibile.

Anche a costo di dover passare da un film così pedante, che prima ti conquista, poi ti confonde e dopo ancora ti lascia lì, stordito, davanti a un vicolo cieco. Lo stesso vicolo cieco che ti costringe a capire fino a che punto sia vero quanto segue: non sta scritto in nessun posto che quel sentiero debba portati da qualche parte, verso una meta precisa, essendo l’obiettivo il viaggio stesso. Chi fino a quel punto non si è preoccupato d’altro che di giungere a destinazione, si sente allora tradito, addirittura offeso; e nella stragrande maggioranza dei casi avrebbe tutte le ragioni per esserlo. Non stavolta. Non con Personal Shopper. Alla fine tocca infatti domandarsi cosa cerchiamo da questo tanto chiacchierato cinema; ma soprattutto perché. Da spettatore, sinceramente, non chiedo molto altro.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Personal Shopper (Francia, 2016) di Olivier Assayas. Con Kristen Stewart, Lars Eidinger, Anders Danielsen Lie, Nora von Waldstätten, Sigrid Bouaziz, David Bowles, Ty Olwin, Fabrice Reeves, Pamela Betsy Cooper, Leo Haidar, Benoit Peverelli ed Abigail Millar.

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