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PlayTime: il monumentale capolavoro restaurato di Jacques Tati

Ritorno alla Tativille di Jacques Tati con la satira ilare e monumentale del mondo moderno di PlayTime

di cuttv
pubblicato 13 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:57

Chi ha apprezzato (e molto) l’Omaggio a Jacques Tati di RIPLEY’S FILM e VIGGO, inaugurato dal suo ritorno in sala nelle vesti del laconico e garbato Monsieur Hulot, alle prese con la raffinata e anticonvenzionale satira della vita moderna di Mon Oncle, probabilmente è già pronto a replicare, seguendo l’alter ego del nostro poliedrico artista francese, svagato, fuori luogo e abile a sconvolgere l’ordine apparente delle cose, sul set dell’imponente PlayTime, di nuovo al cinema in versione restaurata dal prossimo 14 giugno.

L’opera più imponente e fallimentare di Tati, girata in un panoramico 70 mm, con soluzioni visive e sonore straordinariamente efficaci nel presagire il grado di omologazione e alienazione innescato dal processo di globalizzazione, si spinge oltre i consueti limiti imposti dal quadro filmico, la grammatica del linguaggio cinematografico e la logica produttiva della settima arte.

Sfidando limiti e consuetudini, del cinema e dello spettatore, nel film strutturato in quadri che si succedono senza apparente legame, Tati allarga lo spazio della visione con la ripresa di campi lunghi, medi e panoramiche che non contemplano primi piani e dettagli, mettendo in scena uno spazio aperto allo sguardo e alla sensibilità dello spettatore, libero di vagare e indugiare su dettagli, riflessi e riflessioni.

Nel maestoso e costoso set della cosiddetta ‘Tativille‘, costruita alla periferia di Parigi come una città ultramoderna di vetro, acciaio e cemento, la minuziosa cura per la profondità di campo e le angolazioni di ripresa, lasciano lo spettatore libero di seguire i personaggi.

In realtà, tutti i personaggi sono individui e silhouette di persone a grandezza naturale che si muovono e svolgono molte azioni contemporaneamente, usate da Tati alla stregua di comparse di un ambiente che ne condiziona le esistenze, amplificandone la frenesia e l’isolamento.

Questo vale anche per Monsieur Hulot (Jacques Tati) e la giovane americana Barbara (Barbara Dennek) che esplora la città con un gruppo di turisti, gli stessi con i quali Hulot è destinato ad incrociarsi e condividere le contraddizioni di una Parigi che sopravvive nei riflessi fugaci dei suoi monumenti su vetrate moderne.

[quote layout=”big” cite=”Jacques Tati, 1967]”Vetro, nient’altro che vetro! Apparteniamo a una civiltà che sente il bisogno di mettersi in vetrina” [/quote]

Spostando l’attenzione sull’ambiente e sui meccanismi del suo funzionamento, la linea narrativa segue il flusso della visione, spostandosi dalla sinfonia di grigio, angoli retti e modernità dell’aeroporto di Orly, attraversato dal gruppo di turisti americani, alle fughe prospettiche di vetro e acciaio che dominano l’edificio ultramoderno dove Hulot si reca per un colloquio e perdendosi tra i sui meandri, scorge il labirinto di postazioni di lavoro che annichiliscono l’individuo, con una visione che fa eco all’ingranaggio dei “Tempi Moderni” di Chaplin.

Con la sua consueta grazia, Tati riduce il tempo ricreativo che da il titolo al film, a foto di oggetti strani e superflui, pallidi riflessi di una realtà destinata ad andare in frantumi, soprattutto quando Hulot, letteralmente trascinato nel gruppo di turisti, finisce dagli stand di una fiera di gadgets ultramoderni, alla disastrosa inaugurazione del ristorante “Royal Garden”.

Il gruppo raggiunge il ristorante alla moda troppo presto, mentre l’insegna luminosa è ancora spenta, l’aria condizionata smette di funzionare, il caldo scioglie i dolci e gli aeroplani di plastica che decorano i tavoli, assegnati a clienti diversi, nel caos di chef che saltellano in sala con una mattonella del pavimento incollata al piede e sportelli troppo stretti per i vassoi, mentre Hulot offre il suo contributo alla disfatta del locale, nel tentativo di staccare dal muro dei fiori per una signora.

Hulot fa conoscenza con Barbara e il suo gruppo di amici un po ebbri che si divertono nonostante tutto, mentre il film mette in scena la rivalsa dell’uomo sull’apparente perfezione di forma e progresso, al ritmo con le risa di personaggi senza nome e le note di una vecchia melodia francese suonata al pianoforte dalla giovane turista americana.

Una melodia capace di ricondurre ad una dimensione nostalgicamente umana la partitura sonora del film, scandita dal brusio incessante della strada e i silenzi irreali delle sale d’attesa, ovvero, quel frastuono del mondo che ha richiesto a Tati un anno di lavoro e risorse, dei tre che sono stati necessari per portare a termine il film che lo ha portato alla bancarotta e costretto ad indebitarsi per un decennio.

Tati infonde un barlume di speranza al genere umano sottratto all’omologazione e alienazione spersonalizzante, anche nelle scene finali, quando trasforma in una sorta di giostra il traffico di veicoli intorno al una rotatoria, compreso il pullman che riporta a casa il gruppo di turisti americani, con Barbara e il suo foulard nuovo, avuto in dono da Hulot.

[quote layout=”big” cite=”Jacques Tati]”La gente è triste. Nessuno fischietta più per la strada.”[/quote]

Con la gloriosa coreografia di un epoca sconcertante e senza bisogno di tante parole, Tati torna a metterci in guardia contro il rischi di immolare le nostre esistenze alle macchinazioni efficienti, svuotandole di valori e la sana voglia di giocare e, se il suo monumentale film si rivelò un’operazione commerciale fallimentare nel 1967, il suo valore riconosciuto con il tempo, resta tale da permettere al nostro sguardo di tornare libero di guardare da prospettive diverse, quello che un esponente della Nouvelle Vague come Jacques Rivette ha definito il film più “democratico” di tutta la storia del cinema.

[rating title=”voto cut-tv’s” value=”10″ layout=”left”]

PlayTime (Tempo di divertimento, Francia/Italia, 1967, commedia, 126 min) Jacques Tati. Con Jacques Tati (monsieur Hulot), Barbara Dennek (Barbara), Jacqueline Lecomte (amica di Barbara), Georges Montant (monsieur Giffard), Reinhart Kolldehoff (direttore tedesco), John Abbey (Mr. Lacs), Valérie Camille (segretaria di Mr. Lacs) Marc Monjou (falso Hulot), Georges Faye (architetto), Gilbert Reeb (cameriere), France Rumilly, France Delahalle, Laure Paillette, Colette Proust, Erika Dentzler, Yvette Ducreux, Rita Maiden, Nicole Ray, Luce Bonifassy, Evy Cavallaro, Alice Field, Eliane Firmin, Didot Ketty, France Nathalie, Jam Olivia Poli, Sophie Wenneck e il gruppo di turisti americani, Jacques Gauthier, Henri Piccoli, Léon Doyen, Grégoire Katz, Yves Barsacq, Tony Andal, André Fouché, Michel Francini, Billy Kearns, Bob Harley, Jacques Chauveau, Douglas Read, Francis Viaur, Billy Bourbon. Di nuovo in sala in versione restaurata in 4K il 14 Giugno 2016.

[quote layout=”big” cite=”François Truffaut]”PlayTime non assomiglia a nulla che già esista al cinema. È un film che viene da un altro pianeta, dove i film si girano in maniera diversa. Forse PlayTime è l’Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano, dal “loro” Louis Lumière? Lui vede quello che noi non vediamo più, sente quello che noi non sentiamo più, gira come noi non facciamo.”
[/quote]

Playtime: Curiosità

Il film è stato sceneggiato da Jacques Tati con Jacques Lagrange e Art Buchwald per ulteriori dialoghi in inglese.

Playtime, prodotto da Specta Films è stato realizzato nel formato ad alta risoluzione 70mm, con una colonna sonora stereofonica a 5 canali piuttosto complessa per quel tempo.

Il film è stato girato tra il 1964 e il 1967, nell’enorme set alla periferia di Parigi, noto come ‘Tativille‘, richiedendo l’investimento di ingenti somme per la costruzione e manutenzione, un centinaio di lavoratori e un’apposita centrale energetica.

I lavoratori edili costruirono due edifici di 11.700 metri quadrati di vetro, 38.700 metri quadrati di plastica, 31.500 metri quadrati di legno, e 486.000 metri quadrati di cemento.

Crisi di budget, complicazioni climatiche e imprevisti vari hanno contribuito a estendere i tempi di ripresa, arrivati a tre anni, mentre i continui sforamenti di budget, costrinsero Tati a chiedere tanti e tali prestiti personali, da spingerlo sull’orlo del fallimento, argomento toccato anche durante un’intervista di David Lynch.

Una sinfonia di grigio, angoli retti e modernità, dominano la costruzione dell’aeroporto di Orly, attraversato dal gruppo di turisti americani e la giovane Barbara (Barbara Dennek) che saliranno sul bus per recarsi nell’albergo altrettanto moderno.

Enormi fotografie hanno sostituito alcune delle facciate e degli interni del set dell’aeroporto, con il vantaggio di non riflettere la camera o le luci, risparmiando sul budget.

Anche i paesaggi che Barbara vede riflessi nella porta a vetri sono fotografie, così come Tati sostituì molte comparse con silhouette di persone a grandezza naturale.

La scena del ristorante dura 45 minuti complessivi.

In origine il set avrebbe dovuto trasformarsi in un parco divertimenti, ma il fallimento commerciale del film e di Tati, lasciarono andare in rovina e abbandono fino ai primi anni ’80.

Il primo montaggio approntato durava 155 min. con l’intermezzo e la exit music, nella versione curata da Tati, come quella di 124 minuti ma con il tempo la versione di 124′ è diventata l’unica disponibile.

Il film esiste in molti diversi “cut” di varia lunghezza, tra cui uno restaurato di 126 minuti di montaggio e un Director’s cut di 155′.

Per i mercati internazionali Tati ha creato una colonna sonora con aluni dialoghi francesi doppiati in lingua inglese.

Playtime è stato restaurato nel 2001 da François Ede con un operazione costata più di 800.000 euro e mostrato nella sua versione originale dal montaggio di 124 min. al Festival di Cannes del 2002.

La versione che torna in sala con “Omaggio a Tati” di RIPLEY’S FILM e VIGGO, anticipata da Mon Oncle e seguita da “Les vacances de Monsieur Hulot” e “Jour de Fete”, è stata restaurata in 4 K (restauro immagine Arane-Gulliver, restauro del suono L.E. Diapason)

[quote layout=”big” cite=”Michel Chion]«Il noto silenzio di Hulot non corrisponde alla condizione naturale del mimo. Per Tati, è una conquista, una costrizione scelta. I dialoghi nei suoi film […] avrebbero potuto scorrere spontaneamente. Tati sceglie di rendere Hulot, nonostante la sua voce muta, un personaggio estremamente comunicativo. Lo notiamo nel suo comportamento, nei suoi gesti, e anche nella sua immobilità. Hulot corregge costantemente le sue azioni, ritornando a ciò da cui si era allontanato. Stando seduto, senza dire niente (nell’ufficio di Mme Fèvrier o nella sala d’attesa della società di Giffard), Hulot è tremendamente presente; è incapace di confondersi con l’ambiente. In fondo, cosa sogna una persona alta? Di integrarsi con il resto»[/quote]

Quattro anni dopo, Tati tornerà ad indossare il trench e il cappello di Hulot in “Trafic”(Monsieur Hulot nel caos del traffico), l’ultima apparizione del suo celebre personaggio.

Playtime ha vinto il Bodil per il Miglior film europeo (Bedste europæiske film) a Jacques Tati (regista).

Via | RIPLEY’S FILMTativilleL’École du regardKinopoisk.ru