Home Recensioni Un americano a Parigi torna in sala: recensione del film con Gene Kelly

Un americano a Parigi torna in sala: recensione del film con Gene Kelly

Uno dei musical più celebri di sempre, sei premi Oscar, con un trascinante Gene Kelly. Un americano a Parigi di Vince Minnelli torna nelle nostre sale dal 9 giugno

pubblicato 30 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:51

[24th Oscar Best Picture]” content=”” provider=”youtube” image_url=”https://i.ytimg.com/vi/FiiaJRXPAm4/hqdefault.jpg” thumb_maxres=”0″ url=”https://www.youtube.com/watch?v=FiiaJRXPAm4″ embed=”PGRpdiBpZD0nbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNjk2NjgxJyBjbGFzcz0nbXAtdmlkZW9fY29udGVudCc+PGlmcmFtZSB3aWR0aD0iNTAwIiBoZWlnaHQ9IjM3NSIgc3JjPSJodHRwczovL3d3dy55b3V0dWJlLmNvbS9lbWJlZC9GaWlhSlJYUEFtND9mZWF0dXJlPW9lbWJlZCIgZnJhbWVib3JkZXI9IjAiIGFsbG93ZnVsbHNjcmVlbj48L2lmcmFtZT48c3R5bGU+I21wLXZpZGVvX2NvbnRlbnRfXzY5NjY4MXtwb3NpdGlvbjogcmVsYXRpdmU7cGFkZGluZy1ib3R0b206IDU2LjI1JTtoZWlnaHQ6IDAgIWltcG9ydGFudDtvdmVyZmxvdzogaGlkZGVuO3dpZHRoOiAxMDAlICFpbXBvcnRhbnQ7fSAjbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNjk2NjgxIC5icmlkLCAjbXAtdmlkZW9fY29udGVudF9fNjk2NjgxIGlmcmFtZSB7cG9zaXRpb246IGFic29sdXRlICFpbXBvcnRhbnQ7dG9wOiAwICFpbXBvcnRhbnQ7IGxlZnQ6IDAgIWltcG9ydGFudDt3aWR0aDogMTAwJSAhaW1wb3J0YW50O2hlaWdodDogMTAwJSAhaW1wb3J0YW50O308L3N0eWxlPjwvZGl2Pg==”]

Scommessa interessante quella di Valerio De Paolis, che con la sua casa di distribuzione, Cinema, porterà in sala uno dei musical più celebri di sempre. Un americano a Parigi torna perciò nei nostri cinema a partire dal 9 giugno, a distanza di sessantacinque anni dal suo debutto. Diretto da Vince Minnelli, protagonista un esuberante Gene Kelly, insieme all’allora esordiente Leslie Caron (che in molti si affrettano a definire «non bella» secondo i soliti, incerti canoni, mentre chi scrive ritiene che la Caron bella lo sia eccome, con e senza sorriso, questo sì solare).

La trama è di quelle spensierate, volutamente ingenuotte, di quel periodo. L’americano Jerry Mulligan (Gene Kelly) rimane a Parigi malgrado la Seconda Guerra Mondiale sia conclusa da alcuni anni. Nella capitale francese ci resta per dipingere, così come hanno fatto i suoi beniamini; nulla però si muove finché inaspettatamente una ricca ereditiera non s’inventa mecenate. Il motivo è presto detto: non l’Arte di Jerry interessa alla facoltosa signora, bensì il pittore, del quale s’invaghisce. Quest’ultimo sta al gioco, aggiornando costantemente il suo amico Adam (Oscar Levant), un geniale pianista con l’ansia da prestazione e che quindi non ha mai tenuto un solo concerto, nonché la sua nuova conoscenza, il tenore di successo Henri Baurel (Georges Guétary). Finché Jerry non incontra Lise Bouvier e se ne innamora perdutamente; amore ricambiato, se non fosse per un piccolo intoppo: Lise è promessa sposa ad Henri. Nel più classico degli happy ending, l’amore trionferà, per di più a suon di luci, musica, danza e colori.

Per comprendere la porta di quest’opera da sei premi Oscar («quando gli Oscar contavano qualcosa», direbbe lo snob guastafeste di turno), bisogna partire dalla fine, ovvero da quei mirabolanti 17 minuti di balletto. Un americano a Parigi è certamente film come non se ne fanno più, e come allora solo Hollywood poteva e riusciva a farli. Anche oggi, dopo oltre sei decadi, ci si domanda quante risorse, non solo economiche, un film del genere abbia richiesto. Tutto è ai massimi livelli, ed anche chi si dichiara allergico a musical e affini non può fare a meno di notare l’ambizione e la sfarzosità di ambienti e coreografie.

Dirlo oggi non ha senz’altro lo stesso senso di allora, ma davvero Gene Kelly si dimostra animale da palcoscenico. Comincia piano, per poi gradualmente appropriarsi della scena, che culmina con i succitati 17 minuti di performance, inutili quanto volete in termini narrativi, ma che rappresentano la componente che si è meglio conservata e che, a questo punto, è sicuramente destinata a conservarsi per altrettanti anni almeno. Altra cosa rispetto all’espressionismo barocco di maestri come Powell e Pressburger, che con certi toni coltivarono una familiarità tale da non avere eguali, prima e dopo. In Un americano a Parigi è tutto molto meno greve, più spensierato come detto in apertura; è un’Hollywood che ancora non sa cosa le aspetta di lì a poco e può concedersi opere così sopra le righe ma efficacissime in termini d’intrattenimento.

Cogliere oggi eventuali tracce al fine di prodursi in discorsi di senso, siano essi politici o morali, è operazione a mio parere anacronistica, per non dire fine a sé stessa. Certo è che in una commedia musicale a sfondo amoroso appare inevitabile scontrarsi con la questione dei sessi, malgrado nel film di Minnelli non sia una priorità. Oggi ci si metterebbe le mani nei capelli a sentire un Jerry Mulligan dire all’abbiente Milo (Nina Foch) cose del tipo: «una donna così ricca o ha sposato un marito facoltoso o ha ereditato da suo padre». Così come il modo in cui lo stesso pittore si serve della matura amante, sedotta e abbandonata nel giro di pochi minuti, senza che di lei se ne sappia più nulla peraltro. Tutti ragionamenti che lascio volentieri a critici e recensori più qualificati in tal senso.

Ciò che personalmente mi preme di più è mettere a parte voi lettori della qualità di cui gode questa “nuova” (d’obbligo le virgolette, dato che il restauro in digitale risale a circa cinque anni fa) versione restaurata. I colori sgargianti e densi in Technicolor risultano preservati se non addirittura impreziositi da questa conversione, che ne arricchisce le sfumature e l’armonia generale. Un americano a Parigi, laddove sospettamente “passato” quanto a formula e tenore, resta pienamente Cinema in quel tripudio cromatico di suoni e soprattutto danze.

Ho già fatto cena all’imponente presenza di Kelly, così come al lungo balletto finale, ed è proprio qui che un’opera di questo tipo trova fondamento. Scenografie di prim’ordine, accompagnate da una fotografia ricca, una messa in scena notevole, le celeberrime musiche di George Gershwin e delle coreografie semplici ma curate; un’ode al movimento davanti alla macchina da presa, da cui può sostanzialmente trarre piacere chiunque. Quella Hollywood lì, al netto di tutti gli scandali e problemi su cui prima libri e articoli e poi la stessa industria si è attardata, era davvero una fabbrica di sogni e desideri. Chi scrive è rimasto un po’ tiepido al tenore, allo sviluppo di una vicenda francamente poco accessibile (leggasi credibile) nel 2016; tuttavia sono ugualmente disposto ad immaginare che quel genere d’atmosfera, quella Parigi così familiare e “pulita” possa benissimo toccare le corde di altri spettatori.

Aspetto non meno interessante risiede infatti in quest’aura di grandiosità alla quale ancora oggi non si riesce a restare indifferenti. Anche noi, che siamo bombardati d’immagini e stimoli di ogni tipo, per lo più scadenti, riusciamo a darci a questo spettacolo con un pizzico di stupore. Stupore e meraviglia che non saranno gli stessi di chi ebbe modo di vedere Un americano a Parigi a suo tempo, ma che nella sua armonia e sforzo tecnico è rimasto percettibilmente intatto. Ma questo aprire un discorso ben più ampio, che non è probabilmente il caso di trattare in questa sede. Se però amate il Cinema e/o siete fautori del suo potere ammaliante, e volete aggiungere ragioni del perché la pensiate in questo modo, questa iniziativa potrebbe rivelarsi preziosa e sotto più punti.