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La casa delle estati lontane: recensione in anteprima

1995. Mentre l’accordo tra Israele e Palestina sfuma nel peggiore dei modi, tre sorelle devono decidere che fare con la casa ereditata dai genitori. Un percorso di maturazione per lo più aleatorio, in cui la regista Shirel Amitay mescola con eccessiva disinvoltura troppi piani

pubblicato 16 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:15

La casa delle estati lontane costituisce l’ennesima interpretazione di quel conflitto infinito tra Israele e Palestina, visto attraverso gli occhi di una donna, la regista Shriel Amitay. La vicenda riguarda tre sorelle costrette a tornare in Israele per occuparsi della casa che hanno abitato quando erano piccole; i genitori sono morti ed ora tocca capire che farne di questo immobile. Cali (Géraldine Nakache) è l’unica che intende risolutamente sbarazzarsi della casa, mentre le sue due sorelle, Asia ma sopratutto Darel, non sono altrettanto convinte.

Non si può estraniare da questo ritratto familiare il contesto entro il quale è ascritto: siamo infatti nel 1995, ad un passo dalla storica pace tra i due paesi, con il Primo Ministro Rabin ed il leader palestinese Yasser Arafat pronti a concludere un processo durato sin troppo. E sì, la Amitay sovrappone i due binari, sebbene procedano all’incontrario: come molti sapranno, il sogno di una tregua si frantumò con l’uccisione di Rabin, perciò questa traccia parte bene per poi risolversi male, laddove invece con Cali e le sue sorelle si assiste ad un percorso analogo ma inverso.

È un’occasione per relazionarsi con le proprie radici, metterle in discussione se del caso. La prospettiva è chiara sin dall’inizio, e quella di Cali in fondo è la voce del messaggio che La casa delle estati lontane intende veicolare. «Ci hanno sempre detto che prima che noi arrivassimo qui non c’era nessuno», ripete infuriata Cali, che non riesce a conciliare questo tesi con le istanze palestinesi. Perché quest’ultimi allora vogliono stare in quel pezzo di terra? Affrontato da questo lato, però, il film della Amitay non ha granché da dirci, è bene evidenziarlo: si tratta per lo più di un percorso di maturazione molto personale, in cui la questione generale è in qualche modo pretesto.

Qui infatti La casa delle estati lontane mostra alcune crepe; nel suo eccesso di simboli, rimandi, nella fumosità di certe intuizioni, in primis l’asino Rasputin. Un film di sensibilità francese, votato al realismo spinto perciò, che la Amitay cerca di smorzare con l’irrompere qua e là di concessioni di tutt’altra cifra. I genitori, deceduti, ad un certo punto si manifestano e cominciano, gradualmente, ad interagire con le tre sorelle, quasi come se fossero ignari di non essere più vivi. Una trovata che purtroppo non attecchisce, provocando un senso di straniamento su cui la regista non sembra avere controllo, per via di uno scenario sospeso tra cinema e teatro (la presenza di Pippo Delbono è indicativa in tal senso, volontariamente o meno).

D’altronde il film è già piuttosto ambizioso di suo, visto che parla di riconciliazione, passando dal particolare al generale con estrema disinvoltura. Ed è un po’ il limite di tante storie che sul grande schermo optano per un simile tentativo: passare dal macro al micro, o viceversa, è una delle imprese senz’altro più sublimi ma proprio per questo più complesse in cui un cineasta possa cimentarsi. Per farlo bisogna essere, per quanto possibile, certi del risultato. Mentre invece La casa delle estati lontane porta avanti un discorso per lo più personale, come già accennato, forse anche troppo.

In fin dei conti questo potrebbe essere il motivo per cui si fatica a seguire la crescita di Cali, che c’è e la si coglie tranquillamente; solo, non sono sicuro che il processo attraverso cui si sostanzia tale maturazione risulti altrettanto interessante. In altre parole, questo passaggio tra reale ed irreale, tra stato delle cose e stato mentale (o magari spirituale, non mi è chiaro), non fa altro che distrarre, alla luce di un argomentare già di suo non del tutto incisivo. Senza contare che il film vuole anche essere una commedia, però impegnata; obiettivo auspicabile più quanto alle intenzioni che all’esito vero e proprio.

Come già scritto sopra, la posizione della Amitay è chiara, anche se le va riconosciuto di non essersi inerpicata più di tanto in diatribe politiche. Il desiderio di un posto che si possa chiamare casa, con dei confini netti e riconosciuti, è condiviso non solo dalle popolazioni che vivono in quelle zone, e forse, ci dice La casa delle estati lontane, è l’elemento che più di tutti ci rende umani, individualmente prima che come comunità.

Implicazioni verso le quali alcuni, più che altro per credo politico/ideologico, potrebbero mostrarsi tiepidi, se non addirittura ostili; tuttavia si tratta di un livello che, se rileva, lo fa in un secondo momento. La questione è se ci si arrivi in maniera convincente, agganciando lo spettatore oppure no; ecco, da questo punto di vista la risposta è negativa. Un film come questo parla ad un gruppo troppo ristretto di persone, malgrado le tematiche siano universali: limite autoimposto in virtù del quale tanto basta per non dirsi soddisfatti.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

La casa delle estati lontane (Rendez-vous à Atlit, Israele/Francia, 2016) di Shirel Amitay. Con Géraldine Nakache, Yaël Abecassis, Judith Chemla, Arsinée Khanjian, Pippo Delbono, Makram Khoury, Pini Tavger e Yossi Marshek. Nelle nostre sale da giovedì 16 giugno.