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Tokyo Love Hotel: recensione in anteprima

L’alienazione di un contesto in cui il sesso diventa espediente, scusa per evitare di confrontarsi con la dissoluzione dei rapporti. Eppure Tokyo Love Hotel riesce anche ad essere un delicato e divertente ritratto di tutto ciò

pubblicato 20 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:05

Ventiquattr’ore. Una storia corale per raccontare una faccia del Giappone, o più semplicemente alcuni personaggi ciascuno dei quali alle prese con i propri problemi. Che ruotano tutti, chi più chi meno, attorno all’amore e al sesso. L’Atlas è uno dei cosiddetti alberghi dell’amore, dove le coppie si recano per consumare; situato a Kabukicho, noto quartiere a luci rosse di Tokyo, rappresenta anche la prigione del giovane Toru, che coltiva il sogno di lavorare per una grande struttura alberghiera, mentre per il momento fa il receptionist presso l’Atlas appunto.

Magari Hiroki Ryuichi non aveva intenzione di approntare un discorso generale, raccontare chissà cosa, mostrando una parte per il tutto; ma a noi, che apparteniamo a quest’altra fetta di mondo, sembra opportuno cogliere dei riferimenti culturali. Perché sì, pur non trattandosi di un film per nippofili, va da sé che Tokyo Love Hotel si fa portavoce di quella sensibilità. Assumendo i connotati del documentario, peraltro, Ryuichi vuole dirci qualcos’altro al di là dell’umorismo e la leggerezza con cui tratta un’argomento che, diversamente, sarebbe stato improponibile.

Un po’ come accaduto con Kiki e i segreti del sesso, operazione analoga ma diversa, anche qui ci si accosta al rapporto che hanno i personaggi col sesso (mentre nel film spagnolo il discorso verte per lo più sulla sessualità, non una questione di mera semantica). Sesso vissuto compulsivamente da alcuni, semplicemente male da altri, ma in un modo o nell’altro sempre al centro delle dinamiche. Va dato atto al giovane regista giapponese di essere riuscito ad evitare qualsivoglia “trivializzazione” dell’argomento o della vicenda, bilanciando discretamente i toni. E per riuscirci si serve essenzialmente di due elementi.

Il primo è l’amore, o per meglio dire l’affettività. Tiriamoci subito fuori dal pantano pseudo-specialistico e spieghiamo meglio: il film non risparmia scene di sesso più o meno spinte, sebbene la nota ritrosia dei giapponesi verso il mostrare genitali non venga meno neanche stavolta. A ‘sto giro però il sesso non è meccanico, e Ryuichi si sofferma sugli effetti, su come un gesto così ordinario da risultare quasi banale sia invece foriero di altro: dal cliente di una prostituta che s’innamora di quest’ultima, tanto da farle un regalo, all’aspirante cantautrice che soffre il non avere rapporti con il suo ragazzo, con il quale vorrebbe concludere più che altro per allentare la tensione.

Sono all’incirca cinque le storie che si avvicendano e che in determinati punti si sfiorano, tra cui quella di due stranieri coreani talmente presi dalle rispettive occupazioni da essersi oramai allontanati l’uno dall’altro, vivendo come due estranei sotto lo stesso tetto. C’è la donna matura che tiene in casa un latitante in attesa che il suo reato cada in prescrizione, i due agenti di polizia che portano avanti la loro relazione extraconiugale con circospezione, ma con non meno passione. È quasi strano che una storia del genere, popolata da persone alienate, profondamente insoddisfatte, risulti così caloroso; non importa se e fino a che punto ci si riesca ad identificare con le varie situazioni, ché Tokyo Love Hotel non è un film di quel tipo.

Attraversato da una velata malinconia, Ryuichi riesce a non prendersi troppo sul serio, evitando al contempo l’eccesso opposto, ossia scadere nella cialtronata. Invece riesce a tratteggiare l’inquietudine e il disarmo di più generazioni con delicatezza, ma soprattutto con una sincerità semplice. Le due ore e un quarto circa si sentono tutte, ed effettivamente il discorso appare un po’ allungato rispetto a quanto quest’insieme di storie sarebbe stato in grado di veicolare facendo più economia. Ed è questo probabilmente il limite più significativo, nell’ambito di un progetto che poggia totalmente o quasi sulla credibilità dei propri personaggi.

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Da questo punto di vista Tokyo Love Hotel non delude. Certo, per forza di cose non riesce ad andare più a fondo di così, altro potenziale limite che però compensa con una tenuta generale che diverte e fa anche riflettere. Non mancando peraltro di trasmettere un non meglio precisato localismo, perché queste storie, queste dinamiche sono figlie non solo del proprio tempo ma anche, forse soprattutto, di un luogo specifico; risultato che consegue ottiene mediante piccole cose, come la reazione di una ragazzina che sembra venuta fuori da un manga, l’accentuata indolenza di chi non vuole stare al passo con certi ritmi o la perversione quale orizzonte possibile proprio per persone insospettabili, i cui argini da qualche parte devono pur cedere. E se non è l’infatuazione è certamente il sesso; o entrambe le cose. Un destino sì triste, ma al quale addirittura sembra possibile sottrarsi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]

Tokyo Love Hotel (Sayonara kabukichô, Giappone, 2014) di Ryuichi Hiroki. Con Shôta Sometani, Atsuko Maeda, Roy 5tion, Asuka Hinoi, Aoba Kawai, Eun-woo Lee, Yutaka Matsushige, Kaho Minami e Tomu Miyazaki. Nelle nostre sale da giovedì 30 giugno.