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Il diritto di uccidere: recensione in anteprima

Thriller da camera che è anche film di guerra, in una delle modalità in cui la si fa oggigiorno. Il diritto di uccidere è film intelligente, teso, in cui pressoché ogni aspetto risulta al proprio posto

pubblicato 23 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:03

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C’è una frase che il personaggio di Helen Mirren pronuncia allorché incalzato da un suo sottoposto: «C’è in ballo molto più di ciò che vede in quest’immagine». A mio parere l’intero meccanismo di Eye in the Sky (titolo originale de Il diritto di uccidere) è riassunto molto bene in questa semplice ancorché incisiva battuta. E ci sarebbe un discorso alquanto lungo da fare, che verte su una guerra combattuta sui monitor, seduti comodamente a chissà quante migliaia di chilometri rispetto a dove si sta svolgendo la vera azione.

Quello di Gavin Hood, va detto subito, è un film intelligente. Non solo. A dispetto di quanto sia lecito supporre, tiene incollati alla sedia praticamente fino alla fine, non importa che la trama si dipani in quattro ambienti che si alternano sullo schermo. L’esercito britannico ha scovato tre terroristi in cima alla lista dei ricercati, che si trovano tutti sotto lo stesso tetto, a Nairobi; qui stanno organizzando il prossimo colpo, che prevede il farsi esplodere chissà dove ma senza dubbio in luoghi affollati. Per sventare la minaccia il colonnello Powell (Helen Mirren) decide di servirsi di un drone comandato dall’esercito americano. Tutto è pronto, l’abitazione è sotto tiro, basta premere un tasto. Solo che in realtà è più complesso di così.

Il diritto di uccidere è un thriller ma al tempo stesso un film di guerra, declinato secondo i tempi che stiamo vivendo. Tuttavia… metodi nuovi, beghe antiche. Nel caseggiato si trovano sia dei cittadini americani che britannici, perciò prima di autorizzare un attacco del genere vanno considerati più scenari possibili. Improvvisamente, perciò, la storia muta in thriller politico da camera, dove l’azione è portata avanti da scambi di messaggi e telefonate, con i vari politici che si rimbalzano a vicenda una decisione così delicata. In particolare è l’inaspettato ingresso di una ragazzina keniota a scombinare i piani; a questo punto il leitmotiv diventa: vale più la morte certa di un ragazzina o quella potenziale di tante persone (si parla di ottanta)?

Hood ha senz’altro una posizione, che il film velatamente manifesta, ma va altresì detto che Il diritto di uccidere riesce a mantenere un’onesta ambiguità morale, tale per cui ciascuno dei personaggi, quali che siano le rispettive istanze, possono contare su delle ragioni plausibili. Ed è oltremodo interessante il discorso che viene implicitamente affrontato in merito al processo politico/burocratico che s’innesca in situazioni borderline come queste: nessuno vuole prendersi la responsabilità per non perdere la poltrona. Senza gettarla in caciara con una demagogia da quattro soldi, emerge al contempo l’inadeguatezza di chi cinicamente si produce in calcoli mediatici, d’esposizione, che sia la propria persona o il proprio partito. Il tutto in maniera molto concisa ma al tempo stesso chiara.

Venato di un sottile humor, Il diritto di uccidere si mostra altrettanto puntuale nel rappresentare il grottesco di una situazione in cui subentrano sistematicamente impedimenti che ritardano lo sgancio della bomba; eppure tutto appare molto verosimile, senza alcuna palese forzatura. In tal senso contribuisce l’arco temporale, dato che l’azione del film si snoda praticamente nell’arco della sua durata, meno l’introduzione ed il finale, perciò all’incirca un’ora e mezza reale. Una corsa contro il tempo che non cede pressoché in nessun momento.

Ciò che ad ogni modo impreziosisce davvero Eye in the Sky è la sua capacità di affrontare la questione morale senza però farsi limitare da alcun proclama ideologico, presentandocela così com’è. Preciso quasi come un film di Sidney Lumet (La parola ai giurati ci pare un buon riferimento), il meccanismo funziona come un orologio, malgrado qualche imperfezione qua e là (per dirne una, certi passaggi che vedono invischiato l’agente somalo che lavora sul campo). Il diritto di uccidere riesce laddove Andrew Niccol ha ahimè fallito con Good Kill; forse proprio perché quest’ultimo non aveva centrato la giusta prospettiva, focalizzandosi sui piloti dei droni e gli effetti del loro operato sulla loro psiche.

Qui invece il discorso è più ampio, abbracciando politica, morale, giustizia. Ma soprattutto proponendo un’idea di cinema tradizionale nell’accezione migliore del termine: quello che riesce a veicolare anche gli argomenti più scabrosi e attuali, sui quali spesso non si ha abbastanza lucidità. Non importa perciò fino a che punto si è andati in profondità; conta che di thriller capaci di rendere con criterio se ne fanno ancora. Insomma, un thriller classico per questioni contemporanee. Nota a margine, Il diritto di uccidere è dedicato ad Alan Rickman, qui nei panni del generale Benson: ottimo come in fondo lo è stato tutto il cast.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

di Gavin Hood. Con Aaron Paul, Alan Rickman, Helen Mirren, Iain Glen, Barkhad Abdi, Phoebe Fox, Carl Beukes, Richard McCabe, Babou Ceesay, Tyrone Keogh, Lex King, John Heffernan e Daniel Fox. Nelle nostre sale da giovedì 25 agosto.