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Jason Bourne: recensione in anteprima

Paul Greengrass ancora una volta maestro dell’action frenetico ma bilanciato. Jason Bourne è già uno dei film d’azione più divertenti della stagione

pubblicato 27 Luglio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 08:46

Dopo la parentesi Legacy, spin-off della saga senza il suo protagonista, Matt Damon ritorna a vestire i panni di Jason Bourne nel quinto capitolo dal titolo omonimo. Bourne è scomparso ma la CIA intercetta delle comunicazioni dopo essere stata hackerata addirittura da Reykjavik, in Islanda. La pista in questione conduce a Bourne, sebbene non sia chiara la natura del rapporto tra l’hacker e l’ex-agente del programma Treadstone. I file segreti sottratti all’agenzia tuttavia sono legati eccome a Bourne, dato che contengono informazioni inerenti alla genesi del progetto Treadstone, dunque si collegano al passato di Jason. Non solo. Vi è un altro progetto il cui nome in codice è Iron Hand, di cui, manco a dirlo, si sa nulla.

Questa quinta iterazione ci immerge nell’epoca in cui viviamo come probabilmente nessuno dei suoi predecessori, sebbene le sue virtù siano da ricercarsi altrove. Che Greengrass sappia il fatto suo è cosa nota, e Jason Bourne già da ora detiene un record che pochi potranno contendergli entro l’anno, ossia il maggior numero di stacchi di montaggio. Il film vince qui, grazie al suo ritmo estremamente bilanciato a fronte di un’azione frenetica ma sempre “comprensibile”. Muscolare a tal punto da farci avvertire colpi e urti, con due scene madre notevoli, roba da tenerci sei mesi di corso a tutti gli aspiranti registi che intendono focalizzarsi sugli inseguimenti.

Un risultato che Greengrass consegue da cineasta scafato qual è, asciugando tutto il resto, senza fronzoli od orpelli. Verrebbe da dire action d’autore, se tale definizione non fosse un pelo inflazionata e forse pure sbrigativa. Ma tant’è. Il regista britannico ci offre l’ennesima prova del suo talento, che, tra le altre cose, sta nel calarci nelle sequenze su cui di volta in volta si concentrano i suoi film. Con uno stile sobrio, macchina costantemente a mano, c’incalza con riprese che non durano più di qualche secondo e malgrado questo si lasciano seguire tanto quanto appagano, divertono.

Anche nel trattare tematiche attualissime, come i prodigi della rete che azzera le distanze dovunque ci si trovi, Greengrass si mostra sì fedele, consapevole della questione, senza però riempirci di nozioni e/o dettagli che rischiano di distrarci dall’azione. Azione verso cui convoglia tutti gli elementi, che sia la trama, il montaggio, le scelte di regia, i personaggi. Bourne in tale contesto dirà sì e no dieci battute, si produrrà nella medesima espressione per tutto il tempo, eppure la sua presenza scenica non soltanto è mai messa in discussione ma è per giunta preponderante. Quello di Greengrass è cinema dei sensi, per così dire, il tatto soprattutto: in ogni scena, come già accennato, le superfici si possono toccare, i colpi si possono sentire, traendo il massimo dall’esperienza cinematografica che procede sempre mediante un «come se» che immedesima quanto basta per farci avvertire certe sensazioni con il privilegio di non doverci preoccupare delle conseguenze – meccanismo, se vogliamo, tipico degli horror, la cui funzione però si concretizza a livello psicologico, non “tattile” come negli action ben riusciti.

Per comprendere dinanzi a quale tipo di operazione ci troviamo, si guardi alla lunga scena, con annesso inseguimento, che si svolge ad Atene. Potrebbe benissimo trattarsi del luglio scorso, quello del Referendum contro l’Euro o quale che sia stata la dicitura; sta di fatto che di certi discorsi non se ne fa alcuna menzione e piazza Syntagma non è altro che lo scenario entro il quale ambientare il prologo di una fuga per le vie della capitale greca. Eppure il riferimento è lì, sotto gli occhi di tutti, esposto quanto serve per collocare la vicenda all’interno di un preciso quadro storico, evitando al tempo stesso di ingolfare il tutto con descrizioni, disamine e processi che a un film del genere non riguardano.

Storia e politica per Greengrass sono fondamentali ma rimangono tutt’al più un pretesto per costruire qualcos’altro, quell’altro che al contempo è indissolubilmente legato a tali premesse. Ancora più incisiva può considerarsi la traccia inerente alla connettività o interconnessione che dir si voglia. Bourne ad un certo punto giustifica la sua assenza dalla scena dicendo «se ti stacchi dalla rete sopravvivi», presupponendo, diversamente da quanto sostenuto da Michael Mann in Blackhat, che un modo per isolarsi dalla rete esista. Con una semplice frase, immediata, quasi banale, ci viene trasmesso molto più di quanto un intero saggio a tema sarebbe stato in grado di fare, con un’economia di tempo e sintesi invidiabili: sì, se ti stacchi sopravvivi, ma per riuscirci devi essere Jason Bourne. Il film non tratta espressamente questo, ma non si sottrae dal prendere una posizione e dirci en passant qualcosa sul periodo che stiamo vivendo; forse lo capiremo e dunque lo apprezzeremo meglio fra qualche anno.

Insomma, Greengrass è uno dei pochi cineasti contemporanei che bazzicano l’industria dorata a saper dire qualcosa pur rimanendo nell’alveo del mainstream duro e puro. Di contro, bisogna per certi versi accettare i compromessi di questa tipologia di prodotto, che in molti casi fuggono come la peste una reale profondità. Jason Bourne non è da meno, nello sviluppo della trama, nella costruzione dei personaggi, nei colpi di scena: in tal senso è un film alquanto convenzionale e, per forza di cose, in misura maggiore rispetto al suo ultimo penultimo lavoro, ovvero Captain Phillips. Tuttavia appare un’idea chiara, malgrado tutto personale, e che funziona. Ne sfornasse di più Hollywood film di genere così intensi e divertenti, che peraltro solo lei può fare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Jason Bourne (USA, 2016) di Paul Greengrass. Con Matt Damon, Alicia Vikander, Julia Stiles, Vincent Cassel, Tommy Lee Jones, Ato Essandoh, Scott Shepherd, Neve Gachev, Riz Ahmed e Bill Camp. Nelle nostre sale da giovedì 1 settembre.