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Venezia 2016, David Lynch: The Art Life – Recensione in Anteprima

Dopo 12 anni di produzione arriva finalmente al cinema David Lynch: The Art Life, ipnotico e conturbante documentario sulla genesi artistica dell’iconico regista.

pubblicato 4 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 06:21

12 anni di lavoro e 180.000 euro raccolti nel 2012 tramite crowfunding per un documentario di 90 minuti che delinea i lineamenti di un genio della settima arte, 70 anni, neanche un Oscar vinto e una venerazione totale da parte dei cinefili di mezzo mondo. David Lynch: The Art Life di Rick Barnes, Jon Nguyen e Olivia Neergaard-Holm non poteva che mostrarsi in anteprima mondiale alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, perché 10 anni fa proprio al Lido venne presentato Inland Empire – L’impero della mente, ultima fatica cinematografica del regista statunitense. Un set, quello del film, che vide i tre registi iniziare a progettare e a filmare questo straordinario viaggio nel tempo targato Lynch. Un diario privato e personale che l’autore di Mullholland Drive ha dedicato a Lula Boginia Lynch, ultima figlia avuta 4 anni or sono dalla 4° moglie Emily Stofle.

Certamente regista, sceneggiatore e produttore ma anche, se non soprattutto, pittore, scultore, musicista, compositore, scenografo e scrittore. Attualmente al lavoro sul sequel tv di Twin Peaks e autore di solo 10 lungometraggi in 40 anni di carriera, Lynch ha qui ripercorso i primi 30 anni della propria vita attraverso aneddoti mai raccontati, foto e filmini d’epoca, disegni, pensieri e inedite immagini dei suoi primissimi lavori. E’ lo stesso regista a condurci lungo i cunicoli dei propri ricordi, mentre fuma decine di sigarette, beve litri di caffè e dipinge, costruisce, produce. Una vita di sola arte, 24 ore su 24, che Barnes, Nguyen e Neergaard-Holm hanno faticosamente provato ad osservare e riprodurre, miscelando con sapienza suoni, musiche ed immagini estratte dai suoi studi, dalle sue gallerie d’arte, dai laboratori di scultura e pittura. Un universo lynchiano che da tempo, oramai, accoglie il regista a braccia aperte affinché possa dare sfogo alla propria inesuaribile vena artistica.

Dalla tranquilla infanzia nella provincia americana all’arrivo nel’odiata Philadelphia, che ne aumenterà ansie e paure. Tappe adolescenziali che Lynch riporta a galla attraverso brevi ma significativi episodi, personaggi appena accennati eppure fondamentali nella costruzione di un cupo e visionario mondo che lentamente prenderà sempre più vita, mostrando indirettamente a noi spettatori tanto l’uomo quanto l’artista. Impossibile capire dove finisca il primo e dove inizi il secondo, perché sin dall’infanzia Lynch vede il mondo in modo diverso rispetto agli altri, tra contraddizioni e ossessioni, visioni oniriche e paranoie. E’ il nostro passato che colora l’oggi, idee più astratte comprese, che le reinventa, le influenza e trasforma, sottolinea il regista, per un doc che ne rimarca tanto la complessità quanto l’assoluta unicità.

Le origini di un genio, potremmo definirle, cinematograficamente parlando ‘nato’ con The Alphabet, corto ibrido tra installazione e cinema sperimentale del ’68 che gli spalancò le porte dell’American Film Institute. Quella borsa di studio, per lui insperata, gli cambiò di fatto la vita, dando ulteriore forza a quell’ipnotica visione che anni prima l’aveva visto folgorato dinanzi ad un proprio quadro. Perché a suo dire si muoveva. Le immagini da lui dipinte si stavano spostando, e fu lì, in quel preciso istante, che la settima arte incrociò la sua strada. Nel 1970 The Grandmother, corto di 34 minuti interamente girato nella sua casa, suscitò talmente tanto clamore da portare Lynch a Los Angeles, nella soleggiata California. Ad accoglierlo il conservatorio dell’American Film Institute. Ed è qui, nelle stalle dell’istituto, che il regista inizia a lavorare all’iconico Eraserhead – La mente che cancella, ansiogeno capolavoro completato solo dopo sei anni di fatiche e infiniti problemi produttivi (perduta anche la casa, oltre a moglie e figlia, tanto da dover dormire sul set). Il resto è storia, più o meno conosciuta e non a caso qui completamente lasciata in disparte, per un Giardino delle Delizie cinematografico (il capolavoro di Hieronymus Bosch troneggia sul suo tavolo di lavoro) che illumina le mille facce di un uomo inafferrabile, surrealista nell’animo e oscuro nella propria rappresentazione, mai così tanto umano tra gli umani. L’unica pecca? Purtroppo finisce, The Art Life, dopo ‘solo’ 90 minuti.

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David Lynch: The Art Life (Doc, 2016, Usa) di Rick Barnes, Jon Nguyen e Olivia Neergaard-Holm; uscita in sala gennaio 2017 con Wanted.