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Venezia 2016, Voyage of Time: recensione del documentario di Terrence Malick

Festival di Venezia 2016: il nuovo corso di Terrence Malick registra un altro importante tassello, che torna alle tematiche di The Tree of Life, qui ampliate con addirittura maggiore libertà. Preghiera visiva che trasmette amore e gratitudine

pubblicato 7 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 06:02

Schermo nero. Tutto parte da un vuoto da colmare, una tavolozza intonsa da riempire. È difficile spiegare quanta ambizione, al limite con la follia, serva anche solo per potere pensare di girare un documentario sulla storia della Terra (chi parla d’universo temo abbia frainteso, almeno in parte). Non dell’uomo, ma del pianeta, di cui l’essere umano fa parte. Terrence Malick non se ne cura troppo e procede, tirando dritto per la propria strada ed affrontando di petto l’immane impresa così come un soldatino munito di lancia ed un’armatura sgangherata si prepara a fronteggiare un intero esercito.

Voyage of Time è il frutto di questo tentativo grandioso: grande nel titolo, nelle premesse e nell’esecuzione. Laddove in The Tree of Life macro e micro si alternavano, qui l’attenzione è totalmente rivolta al macro di un pianeta che si forma, si popola, dà la vita e la toglie. Si potrebbero proporre le teorie più disparate per spiegare il perché alla bellezza e nitidezza delle mirabolanti immagini naturalistiche Malick opponga delle riprese fatte attraverso dispositivi molto modesti ogni qualvolta mostra l’uomo di oggi.

Il tempo, oramai dovrebbe essere chiaro, per Malick assume un significato particolare: la sua è la prospettiva di chi osserva da una posizione “diversa”, al di là dello spazio e del tempo. La sua dimensione è l’eternità. Da lì fa avanti e indietro, da un posto all’altro, da prima che il nostro mondo fosse fino a passare sopra i grattacieli di oggi. Non siamo ai livelli di quel famoso osso lanciato al cielo in 2001, che di fatto segna lo stacco di montaggio più lungo nella storia del cinema, dalla scimmia al XXI secolo, ma anche Malick non scherza. Oramai è sempre più chiaro che la sua sia una visione olistica dell’esistenza, dove tutto si tiene, dove scienza e fede debbono imparare a convivere e, laddove possibile, parlarsi.

Il suo non è però un trattato di divulgazione bensì una preghiera in immagini quale mezzo per trasmettere amore ed un profondo senso di gratitudine. Amore soprattutto, verso ogni cosa, compresa l’immagine, la cui venerazione passa attraverso una serie di riprese da mozzare il fiato: nello spazio, negli abissi, nei cieli. Tutti gli elementi vengono evocati, perché il pianeta non potrebbe reggersi qualora venisse meno anche solo uno di questi. Il senso di Voyage of Time, la cui narrazione viene a più riprese interrotta dagli estratti sopracitati girati con mezzi di fortuna (in molti casi cellulari), è che il cosmo sia fondamentalmente perfetto. Non importa quanto riesca a non esserlo, ed in non poche occasioni: la sua struttura ed il suo funzionamento è a prova di errore.

Se gli ultimi lavori di Malick recavano dei paletti all’ingresso, per quest’ultima fatica non ci si aspetti un diverso trattamento. Anzi. Piaccia o meno, s’ha da essere predisposti a sentire la soave voce di Cate Blanchett invocare la «madre» più e più volte, ponendosi costantemente domande alle quali non seguono risposte. Ed ancora una volta ciò che colpisce è la sincerità, quasi l’ingenuità di porsi dei quesiti da bambino, ripetendo di aver paura, di non voler essere lasciato solo. Per Malick, di nuovo, la cosa più importante è riuscire a tenere accesa “quella” luce, niente di più niente di meno.

La stessa formazione della Terra costituisce un atto d’amore poiché, per ricollegarci alle prime frasi di questo scritto, la sua comparsa segna il passaggio dall’oscurità alla luce. Una luce che si fa strada poco alla volta e mediante i colori più disparati. Finché la Terra non è, non potrà esserci luminosità abbastanza, processo che in Voyage of Time si presenta visivamente nel medesimo modo, con uno schermo che gradualmente dissipa lo sfondo nero. Sono le stesse immagini che abbiamo visto in The Tree of Life, il quale, in maniera diversa, sostiene tesi analoghe (questo documentario rappresenta l’occasione per approfondire certi argomenti già percepibili nel film che gli valse la Palma d’Oro). Ma non si commetta l’errore di credere che il nostro divinizzi la natura solo perché se ne mostra così affascinato: la natura non è grande di per sé, non è Dio. Oltre però non si va, ché già le concessioni a ciò che forse non può semplicemente essere visto sono lì a due passi.

A nulla vale descrivere certi processi, sia riguardo ai contenuti che in relazione alla forma. Sostanze che si mescolano, esplosioni, unioni, separazioni, a qualunque livello, sopra e sotto il cielo; tutto tende alla vita, perciò ci si domanda più o meno esplicitamente il perché della morte intesa come negazione di ciò a cui invece ogni cosa tende con una forza incredibile. Immagini e suoni ci trasportano a bordo di una navicella di cui Malick è il comandante, un po’ come gli alieni di Arrival. Come nel film di Villeneuve, il cineasta texano si ostina a volerci consegnare un linguaggio che ci consenta di “sbarazzarci” del tempo, progredendo verso la nostra piena realizzazione, la quale passa da una dimensione che non risenta di questo limite radicale.

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E malgrado sia questa la versione lunga (l’altra dura la metà, 45 minuti), non sarebbe stato affatto male averne una terza: non meno di tre ore, che consentirebbero al progetto di respirare meglio rispetto agli stipati 90 minuti. Non a caso la prima metà risente del preventivabile compiacimento del regista verso sequenze che si soffermano sulla natura, un tipo di osservazione non alla portata di tutti. Finché la narrazione non viene fuori, le prime forme di vita compaiono, poi l’uomo, ed allora il discorso sale improvvisamente di livello. Si avverte che Malick a malincuore abbia dovuto correre per arrivare al punto; il suo tuttavia è un cinema totalmente inserito nei contesti che mostra, vissuti con partecipazione ma senza alcuna intromissione. La macchina da presa è lì ma non interferisce in alcun modo, sebbene tale approccio vada oltre il mero intento documentaristico. Malick cerca la Verità, ed è questo che lo pone in una situazione molto scomoda, dato che agli occhi di molti un’intenzione del genere appare intrinsecamente sbagliata. Insomma, non glielo si perdona; questo, così come la mancanza di una narrazione forte, che a ‘sto giro effettivamente presta il fianco a critiche magari ingenerose ed inutilmente esasperate ma non prive di fondamento, specie in relazione alla già citata prima parte.

A chi però si lamenta che non tutto sia comprensibile, o per lo meno immediato, va ricordato che la poesia non lo è mai, immediata. Talvolta è addirittura poco accessibile. Al che si potrebbe obiettare che un cinema per pochi eletti sia obiettivo deprecabile, e se così fosse si avrebbe ragione. Solo che non è così ed il vero intento è semmai quello di gettare un seme, in attesa che attecchisca. Tuttavia come attecchirà dipende dal terreno, che non sempre è fertile. Ci sono delle condizioni e Malick lo sa, ma questo non lo distoglie dal traguardo, non gli impedisce di raccontare il mondo in quel lungo ricordo che è la sua storia. Una storia che non si è ancora conclusa.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]

Voyage of Time (USA/Francia/Germania, 2016) di Terrence Malick. Con Cate Blanchett. Concorso

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