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Venezia 2016, The Woman Who Left: recensione del film di Lav Diaz

Festival di Venezia 2016: Il vangelo secondo Lav Diaz, che con The Woman Who Left trova il giusto compromesso tra il suo ultimo lavoro ed i precedenti, una filmografia alla quale quest’ultimo tassello appartiene comunque a pieno titolo

pubblicato 9 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 05:56

«C’era una volta un desiderio. C’era una volta un desiderio dentro a un sogno». Horacia ha trascorso gli ultimi trent’anni in galera per un crimine che non ha commesso. Nel 1997 però il vero assassino esce allo scoperto e confessa; si scopre allora che Horacia fu incastrata dal suo ex-ragazzo. Di tutta risposta la donna sviene, tanto era oramai inattesa ed impensabile la libertà. Non che lei entro quelle mura si trovasse male: Horacia è una donna a cui tutti vogliono bene poiché a nessuno si nega, aiutando tutti indiscriminatamente. Anche una come lei, però, fatica a reggere la portata del danno subito e la reazione, da meravigliata qual è, muta in vendicativa. Inizia il suo viaggio alla ricerca di colui che le ha rubato trent’anni di vita.

Con The Woman Who Left Lav Diaz mitiga la sua prosa senza compromessi per darsi ad un cinema dalla narrazione più netta, senza rinunciare all’osservazione che però stavolta non sfocia mai in contemplazione. Lo stile non si cambia (come potrebbe?), solo che le immancabili inquadrature che lo contraddistinguono vengono utilizzate in maniera diversa: al loro interno la messa in scena risente palesemente della mano del regista, che rivede la sua tendenza documentaristica al fine di consegnarci una storia ben definita. Tratto da un racconto di Lev Tolstoj, La verità la sa solo Dio, ma per dirla può metterci un poco, quest’ultimo lavoro si pone un po’ come un Vangelo secondo Lav Diaz, più conciliante rispetto ai film a cui il regista filippino ci ha abituato, a dispetto delle 3 ore e 45.

Il suo è un dramma su perdono, redenzione, fede e vendetta, tematiche universali che non a caso ben si adattano al contesto delle Filippine del 1997, in cui si registrò un notevole aumento di rapimenti, gente scomparsa che non è stata più ritrovata. Horacia infatti è mossa da due obiettivi: non solo trovare colui che l’ha incastrata ma anche suo figlio, scomparso da tempo. Un corto circuito notevole, che la conduce in luoghi e situazioni che non si sceglie ma in cui semplicemente si trova; lei è la buon samaritana, quella che si fa carico dei problemi altrui, che sfama gli affamati, copre gli ignudi, si prende cura dei malati. Ma la sua è una doppia vita: di giorno la solita, compassionevole donna; di notte si traveste da uomo e va raccogliendo informazioni, cerca di procurarsi un’arma, perché la sua vendetta va consumata senza se e senza ma.

C’è un incontro però che mette tutto in discussione, quello con Hollanda, transessuale che frequenta quelle zone ricavandone per lo più violenze. Sin dalla prima volta, Hollanda sviene davanti ad Horacia, la quale le lascia qualche soldo, la giacca e si allontana. Quando però la trans, ancora una volta malmenata, le si presenta davanti la porta di casa, non basta coprirla e comprarle un pasto. Stavolta il pestaggio è stato serio e la degenza non è una passeggiata. Hollanda è diffidente, dolorante, non parla. Ci vuole un po’ per riprendersi, tanto quanto per trovarsi a proprio agio. Nel frattempo Horacia prosegue imperterrita, pianificando il misfatto attraverso questa sua doppia vita.

Resta immutata l’abilità che ha Diaz nel farci vivere ogni scena come fosse dal vivo, frutto delle lunghe inquadrature senza interruzioni, in cui il montaggio interviene di rado, per lo più per cambiare location o al massimo prospettiva. Questo consente di trarre il massimo dal momento, dal qui e ora che si sta consumando davanti ai nostri occhi, ed al quale noi partecipiamo pienamente inseriti nella situazione. In una delle scene più belle, forse la più bella, Hollanda sta meglio ed in piena notte si mette a cantare, Horacia si sveglia e le va d’appresso; si tratta del momento più felice, genuinamente spensierato dell’intero film, in cui due persone si rivelano per ciò che sono, legate dalle difficoltà che entrambe stanno sperimentando.

Va altresì detto che Diaz non oppone alcuna riserva morale o ideologica a questo spaccato, che racconta col medesimo, sincero interesse mostrato di solito anche nei suoi film più impegnativi (in alcuni casi punitivi). L’uomo e la donna inseriti in un ambiente specifico, a determinate condizioni, alle quali reagiscono in maniera credibile, anche laddove certe uscite appaiano inusuali. È sempre Hollanda che in un altro momento del film si prende il merito della seconda scena di maggior impatto, presso il commissariato, quando risponde alle domande del poliziotto in maniera irresistibilmente sfacciata.

Ed irresistibile è questo Lav Diaz, uno che i premi ai Festival gli scippa quasi, aggrappandosi ad essi con le unghia e con i denti. Stavolta però la sua è un’opera meno hardcore, per quanto possa esserlo un qualsiasi lavoro appartenente alla sua filmografia, nella quale The Woman Who Left rientra decisamente. Qualcosa che già si era percepito con il (quello sì) torrenziale A Lullaby to the Sorrowful Mystery, indirizzo però travolto dalle otto, provanti ore. Qui Diaz trova il giusto equilibrio per mostrarci la complessità delle dinamiche in cui ci troviamo invischiati quotidianamente, non importa a che punto o in che posto ci troviamo. Il film è infatti ambientato nelle Filippine di fine anni ’90, ma è tratto da un’opera russa di fine ‘800. Chi potrà mai negare che in qualunque altra parte del mondo, ora, anno Domini 2016, certe conclusioni non siano applicabili tanto quanto?

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]

The Woman Who Left (Ang babaeng humayo, Filippine, 2016) di Lav Diaz. Con Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Shamaine Buencamino, Nonie Buencamino e Michael De Mesa. Concorso