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A Young Sorrentino le maratone possono nuocere

Settimana dopo settimana le puntate di “The Young Pope” vanno ma l’attenzione si è fatta scialba, il passo di dieci puntate, di un serial, possono essere massacranti per un bravo regista come Paolo Sorrentino

pubblicato 14 Novembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 04:08

Il rapporto con l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “The Young Pope”, visto a Venezia, si è logorato da quando sono iniziati gli episodi su Sky. Cosa prevedibile. Dieci puntate sono un kolossal per un regista come Sorrentino che non è un velocista ma un ruminante geniale di immagini colme di richiami. La sua formula è diventata ben chiara, anche se non scontata. La durata è una montagna impervia ma il giovane regista non è uno scalatore di montagne, ha il passo e le visioni di uno scattista che s’impenna fra andature misurate, calme, colme di emozioni centellinate. Sorrentino imbocca lo spettatore con il miele delle riprese scandite, ritmi sapienti e ricercati, non corre, prende le misure con severa costanza.

Questo lungo film, “The Young Pope”, ripropone un linguaggio sempre più scaltro, penetrante. Le scene sono costruite con massima calma e misura. Gli attori le vivono con una partecipazione emotiva che si svela,li rivela: in apparenza gli angeli sono in realtà dei mostri e i mostri si sciolgono in parole come atmosfere, angeli, suadenti fratelli di Lucifero.

Il racconto va incontro a un lessico che pendola fra lo sguardo della camera, lento o timido nell’avanzare, sapiente, che assapora il ghiotto piatto che sta per essere servito; e i volti, i volti che diventano specchi delle situazioni: minacciosi, protervi, ma anche vuoti, tesi a scoprire un nulla che rimanda ai segreti dei pensieri e delle anime.

Siamo, in questo film, alla fermata dell’autobus per l’inferno e il paradiso mescolati insieme, più inferno che paradiso; poiché le figure di “The Young Pope” sono astratte, fanno cosa da uomini, quando fanno sesso sordido e bacato dal pentimento, e da angeli quando il sesso se n’è andato, e lascia svuotati i personaggi.

Il giovane amico del Pope, orfano come il Pope, pensoso e vago più del Pope, carica sul suo volto come se fosse una schiera ricurva lo schifo del pentimento, l’unica scelta di cui è capace. Mentre il Pope non si pente mai, s’interroga e vince ogni partita. Nessun Papa ha vinto come il Pope nel film di Sorrentino, perché per vincere bisogna essere soprattutto capaci di rivestire i sentimenti di senso pratico, di cinismo.

Questi momenti nelle puntate centrali del serial appaiono lampanti, e continuano a sostenere il film come capriccio in cerca di religiosità, come paradosso che sfida le statue dei papi nella storia statue di marmo a cui beatificazioni e proclamazioni santità conferiscono una dignitosa apparenza di maschere illuminate dall’unica luce disponibile: la vocazione a una eternità che si può sbriciolare, finire, ma sognare di esistere. La vocazione all’eterno, voluto dall’uomo per sentirsi utile e santo, prescelto, dall’umanità che cerca di vivere nel volare, nell’ascendere al piano dei piani, nell’altezze divine.

Le puntate del serial, anche quelle meno riuscite, che si raggomitolano sulle citazione delle citazioni, molte, troppe, viaggiano senza temere cadute, anzi si caricano del fascino del misterioso.

Ma le cadute ci sono. Ad esempio, quella del Pope che riceve la copia sbiadita d premier che rimanda a Matteo Renzi. Un dialogo inserito a forza, per testimoniare un dialogo con il gioco della realtà, che però è risultato subito goffo e appiccicato, una digressione, un espediente, un richiamo; senza calcolare un evidente, e forse non previsto, salto nel ridicolo, facendo male più che al premier o al Pope, alla serie. Peccato, un buco…