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Berlino 2017: The Other Side of Hope – recensione del film di Aki Kaurismäki

Aki Kaurismäki ritorna ad un tenore a lui più familiare dopo la parentesi francese con Le Havre. The Other Side of Hope è commedia impegnata ma spassosa, assurda ma lucida

pubblicato 15 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:46

Khaled arriva a bordo di una nave mercantile. Più che una scelta, la Finlandia è stata una necessità, dopo aver girato l’Europa partendo da Aleppo; ora a Khaled interessa solo trovare la sorella Myriam, che non vede da quando ha lasciato la Siria. Aki Kaurismaki torna a parlare d’immigrazione, di nuovo declinata alla sua maniera, ossia da commedia impegnata, intrisa di quell’ironia tipica del suo modo di guardare alle cose. «Fatti vedere sempre felice, sennò ti rimandano a casa», consiglia un ragazzo iracheno, linea di dialogo che se vogliamo condensa tutto l’umorismo di questo regista, che sul proprio Paese e la propria gente non lesina di rimarcarne l’eccesso di serietà, quell’atteggiamento che rende loro pressoché impossibile guardare alla vita in tono meno che depresso.

Nessuno sorride nei film di Kaurismaki, ma quasi tutti fanno ridere: quando a Khaled uno smanettone informatico chiede il sesso, «uomo o donna?», l’immigrato risponde a tono: «non capisco lo humor». Ancora una volta si tratta di persone chiamate ad interpretare una parte, a fingersi quello che non sono, anche perché in realtà chi sono non sembrano nemmeno saperlo; per sopravvivenza, forse per amore, altri molto più banalmente per abitudine. L’impronta teatrale del cinema di Kaurismaki c’informa anche di questa sua idea circa la concezione del quotidiano davanti la macchina da presa, «nemica per chi non sa recitare, amica per chi è capace di farlo», ha detto in conferenza stampa.

Anche stavolta, non per niente, il cineasta finlandese non cerca il realismo bensì la verità, per quanto sia la sua: «non so chi sia stato, l’esercito, i russi, gli americani, daesh, i ribelli», fatto sta che Khaled è rimasto senza casa, i suoi cari scomparsi, e adesso non gli resta che la sorella e nient’altro; quanto a lui, «io non conto niente» dice. Un ragazzo di venticinque anni che ha acquisito tale consapevolezza lascia pensare, specie alla luce di quanto ha passato; eppure nessuno sembra curarsi più di tanto della sua situazione, neanche chi gli pone delle domande per la richiesta d’asilo. La stessa umanità manifestata nei suoi riguardi non è che un riflesso incondizionato, perché s’ha da essere buoni in certi casi, mica capire il perché. Sia chiaro, Kaurismaki a tal proposito non si produce in giudizi, relazionandosi a tale malcelata indifferenza come chi la trova inevitabile, senza metter su un inopportuno processo alle intenzioni.

Il valore aggiunto, va da sé, non sta comunque nella tematica, bensì in come vengono padroneggiati i vari registri, la disinvoltura con cui l’assurdo irrompe senza stonare in alcun modo, anzi arricchendo la vicenda, portandola su un altro livello. Non a caso The Other Side of Hope non è mica solo la storia di Khaled ma anche di Wikstrom, un rappresentante di camicie che dopo una surreale partita a poker si porta a casa abbastanza soldi per comprare un ristorante, all’interno del quale succedono cose esilaranti. Kaurismaki concentra la propria attenzione su un processo che ritiene inevitabile, ossia il cambio di paradigma culturale; senza però fermarsi alla tesi, il nostro coglie gli aspetti potenzialmente comici di alcune ripercussioni che investono la vita di tutti giorni. Si guardi a come nel giro di mezza giornata il ristorante si ricicla da finlandese a giapponese, perché «il sushi funziona»: la preparazione del sushi a base di aringa sotto sale e un cucchiaio grosso di wasabi assurge a emblema d’inadeguatezza massima, qualcosa che solo un maestro può elaborare con così tanta immediatezza ed incisività.

Insomma, vuoi vedere che le persone “da compatire” in realtà non sono quelli come il giovane siriano arrivato scapicollando bensì proprio gli europei? Non semplifica il problema Kaurismaki, che anzi vede e non intende ridimensionare; il suo è però un monito, un’esortazione ad abbandonare il manicheismo che sta da anni contrassegnando il dibattito sull’immigrazione, invitando a cercare realmente di capire cosa stia accadendo e come porvi rimedio. Il regista di Le Havre, film precedente ed inferiore rispetto a questo suo ultimo lavoro, anche perché trattasi di un’opera più aderente ai suoi film migliori, offre il proprio contributo al dibattito, invitando sostanzialmente ad averne uno; e sa che oggi per farsi ascoltare, per raggiungere le persone, specie in merito agli argomenti più ostici, che per un motivo o per un altro si tende ad evitare, bisogna farle sorridere, se non addirittura ridere. Qui fanno ridere persino i naziskin, oltre che proporre una delle battute più memorabili di questo Festival: «questo cane è molto intelligente: gli ho parlato un po’ in arabo e si è convertito all’Islam». Chiamando a raccolta tutti coloro che, volendo ed essendone capaci, si stanno astenendo dal girare commedie sui temi più scottanti; perché, della commedia, quella vera, raramente ce n’è stato così tanto bisogno.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

The Other Side of Hope (Toivon tuolla puolen, Finlandia, 2017) di Aki Kaurismäki. Con Sakari Kuosmanen, Kati Outinen, Tommi Korpela, Janne Hyytiäinen, Ilkka Koivula, Kaija Pakarinen, Sherwan Haji, Simon Al-Bazoon, Nuppu Koivu e Ville Virtanen. Nelle nostre sale da giovedì 6 aprile 2017.

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