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Berlino 2017: Beuys – recensione del documentario di Andres Viel

Primo artista tedesco ad avere una personale al Guggenheim Museum di New York, Joseph Beuys ha incarnato un tipo di artista diverso ma non meno radicale. Così ce lo descrive Andres Veiel

pubblicato 15 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:45

Beuys. Chi è Joseph Beuys? Agli atti passa come un’artista contemporaneo, il che può significare tutto e niente. Se Andres Veiel ha deciso di dedicargli un documentario non è però in virtù di tale dicitura: Beuys è un personaggio complesso, che a suo modo ha cercato di fare Arte attraverso la propria vita. Le prime immagini sono di un’intervista, in cui l’intervistato esordisce rivolgendosi allo spettatore anonimo, e così lo spiega: «a me piace parlare di persona alla gente, stabilire un contatto». Lì per lì sembra un vezzo d’artista, un volersi dare un tono, eppure è l’introduzione più appropriata al personaggio: Josef fu un instancabile lavoratore, sempre impegnato a fare qualcosa, per lui, come ebbe modo di dire, i fine settimana non esistevano.

Malgrado ogni tentativo di dare vita ad un’opera d’Arte, come direbbe qualcuno, riconduca ad un atto politico, nel caso di Beuys il discorso va applicato quasi alla lettera: lui davvero intendeva cambiare il mondo tramite quello che faceva. Eppure il documentario a lui dedicato non ci restituisce un personaggio ripiegato su sé stesso, autoreferenziale, aspetto di per sé notevole, dato che in un ambiente del genere essere personaggio è indispensabile. Ok, a vedere alcune immagini non si direbbe: lui sotto una pompa d’acqua completamente vestito e completamente bagnato… fine dell’esibizione. Viene da pensare che questo fosse il dazio da pagare per attrarre attenzione, che magari in un primo momento a certe cose fosse interessato pure.

Tuttavia, man mano che il profilo di questo personaggio emerge un po’ più nitidamente, viene al contempo fuori l’affabilità dei modi, il suo atteggiamento conciliante, se non quando si mise di traverso con le autorità tedesche per alcune beghe presso l’Università di Düsseldorf, da cui alla fine fu allontanato. E si ritorna a quelle prime sequenze, alla profonda necessità di un pubblico, per interagire, per giungere a tesi che, lungi dall’essere definitive, assumessero almeno un senso. Figlio del proprio tempo, Beuys colpisce proprio in relazione al fatto di averla vissuta a pieno l’epoca in cui è vissuto, nel bene e nel male; da qui la sua sensibilità, il suo esporsi in politica (fu uno dei fondatori del Green Party tedesco, inizialmente un’accozzaglia di io parlanti, pullulanti le istanze e i desideri più disparati).

La sua Arte consisteva dunque in performance, in un periodo in cui s’impose oseremmo dire con violenza un netto rifiuto verso l’Arte così per come veniva percepita fino a qualche decennio prima; stesso dicasi per Beuys, che l’Arte, nel suo farla oltre che nel fruirla, voleva rivoltarla, trasformandola in uno strumento che incidesse davvero nuovamente, accessibile a tutti, e relativamente a tutti i passaggi di cui constava. Solo che, come spesso avviene a certe condizioni, assistiamo a quell’eterogenesi dei fini per cui si ottengono gli effetti esattamente opposti a quelli sperati: una persona uscita dal Guggenheim di New York, intervistato all’uscita dal museo, domandò quando Beuys fu rilasciato dall’ospedale.

Il punto è anche questo: quanto fango si è dovuto togliere di dosso quest’uomo? Quanta spazzatura è stato in grado di smaltire? La sua tenacia colpisce a prescindere dall’accettazione della sua opera, una costanza che di per sé fa spessore, della quale non si può non tenere conto. In fin dei conti Beuys voleva solo dire qualcosa, come chiunque altro, solo che aveva più coraggio e più faccia tosta di chiunque altro con ogni probabilità, ed in parte tutto ciò fu premiato. Attraverso immagini di repertorio, per lo più uscite pubbliche, seguendo uno schema piuttosto tradizionale, magari integrando qualche agile grafica, che però non sposta più di tanto; Veiel prova a restituirci il profilo per forza di cose irrisolto di una persona ha comunque voluto dare un senso al tempo che ha avuto a disposizione. Certo, a non pochi verrebbe da dire, al contrario, che il tempo Beuys l’abbia sprecato piuttosto: un conto però è capire l’Arte, e questo non è dovuto, specie in zone di confine come queste; altro è non volerne capire i moti, tutto ciò che vi sta alla base, e quello di attenuanti ne ha meno, perché attiene allo spirito, che è sempre ricerca, anche quando non conduce da alcuna parte.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]

Beuys (Germania, 2017), di Andres Veiel.

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