Home Recensioni I luoghi di visione: come l’ambiente si fa modalità per il cinema che viene

I luoghi di visione: come l’ambiente si fa modalità per il cinema che viene

Verosimiglianza o immaginario? Come le modalità di visione incidono sulle propensioni e dunque sulle scelte degli spettatori. Un discorso a latere della conferma di un nuovo multisala nell’ambito del progetto CityLife a Milano

pubblicato 7 Giugno 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 05:20

A parecchi tra i non milanesi, oltre che ad alcuni tra gli stessi abitanti di Milano, sfuggirà uno dei progetti più importanti per la riqualificazione di alcune aree del capoluogo lombardo. Sì perché nell’ambito della cosiddetta politica urbana policentrista (ma in realtà decentrista) delle ultime due giunte comunali, i progetti non hanno riguardato solo le più note e per certi versi celebrate zone di Porta Nuova e della Darsena; un altro polo, o che almeno si vorrebbe tale, è quello in zona Tre Torri, nei pressi di Portello, anche detto CityLife (inglesismo tremendo, concordo). Un progetto ambizioso, che probabilmente meglio di tutti gli altri incarna lo spirito di ciò che si vorrebbe dalle città del futuro, ossia tanto verde, grande area pedonale, il tutto inserito in una cornice composta da grattacieli che vadano a comporre uno skyline atipico per buona parte delle metropoli europee, italiane non ne parliamo.

Con la Brexit poi, e le successive, quasi conseguenti voci di uno spostamento della capitale finanziaria europea per certi tipi di prodotti da Londra a Milano, capite bene come le parole dell’archistar Libeskind proprio in merito a CityLife assumano tutt’altri connotati: «Milano come portale per l’Europa». Sebbene queste nostre pagine sembrino avulse da tutto ciò, il motivo che ci spinge ad accostarci a tale argomento sta essenzialmente nel coinvolgimento di SpazioCinema, che con l’iniziativa Arianteo si appresta a portare nuovamente il cinema in un contesto del genere. Alludo alla serie di proiezioni che si tengono da ieri nell’ambito dell’omonima rassegna, che coinvolge pure Palazzo Reale, L’Umanitaria, il Chiostro dell’Incoronata e per la prima volta la Fabbrica del Vapore; dato però che c’interessa relativamente, vi rimando a questo indirizzo per tutte le informazioni del caso.

NUOVE SALE A MILANO

No, a catturare la nostra attenzione è la costruzione di sale permanenti proprio nell’area CityLife, che saranno gestite da SpazioCinema. Per chi non fosse aggiornato, si tratta della stessa società un tempo gestore dell’Apollo, celebre multisala del centro, a due passi dal Duomo, che lo scorso gennaio ha definitivamente chiuso i battenti per far spazio al nuovo Apple Store. Il problema non è da poco: la chiusura dell’Apollo significa privare l’intera zona di una programmazione che includa titoli che non troverete mai nei tanti Multiplex, film cosiddetti d’autore. In compenso è rimasto l’Anteo, zona Porta Nuova, che malgrado l’ampliamento evidentemente non risolve questa privazione in centro storico.

Lionello Cerri, amministratore delegato di Anteo spa, ha dichiarato che le nuove sale di CityLife godranno di un trattamento analogo all’Anteo quanto a programmazione, mantenendo più o meno intatta la filosofia di depopcornizzazione già approntata per il multisala di via Milazzo. Perciò il nuovo cinema, di cui non si conosce ancora il nome, si propone come un’altra oasi nel deserto, promotore di film che trovano sempre meno spazio nelle uniformate programmazioni di buona parte delle sale attive e operanti nel nostro Paese – ed anzi Milano è fortunata, grazie a centri come Spazio Oberdan, l’Arcobaleno e il Beltrade, così come altri cinema più piccolini che tentano di mantenere questa vocazione ad una proposta più “ricercata”, malgrado tutte le difficoltà del caso, tipo l’Eliseo, l’Ariosto, il Palestrina e il Mexico.

In che senso questo genere di iniziative e cambiamenti interessano noi che ci occupiamo non di urbanistica ma di cinema ed audiovisivo in generale? Semplice, in quanto tali mutamenti incidono sui cosiddetti luoghi di visione. Chiunque, infatti, riflettendoci per qualche secondo, ammetterebbe l’importanza dell’ambiente in relazione alla fruizione di un prodotto audiovisivo a più livelli. Quanti però riescono a immaginare fino a che punto certe dinamiche (s)formino lo spettatore, modificandone non semplicemente le abitudini ma la sua natura?

IL LUOGO DELLA VISIONE COME MODALITA’ DI VISIONE

Perché un luogo è anche una modalità, questo nella misura in cui tale luogo sia “fisso”, cioè dedicato allo scopo preciso della visione; diversamente dal guardare film e serie TV su dispositivi portatili, per cui conta sì l’ambiente, meno il posto inteso come spazio geografico, se non altro perché limitatamente a questo tipo di fruizione i luoghi di visione sono tanti quanti se ne trovano in giro per il mondo, interni ed esterni. Nello specifico, malgrado le notizie siano ancora frammentarie, a SpazioCinema verrà affidato un multisala che disporrà di sette nuovi schermi; in occasione della presentazione di Arianteo si è perciò fatto cenno a queste sale e le notizie hanno riguardato la capienza e l’ampiezza di questi schermi, in entrambi i casi significative, almeno per alcune sale.

In un periodo storico in cui la statura e l’importanza del cinema come tempio vengono ridimensionate a fronte di offerte sempre più allettanti e, parliamoci chiaro, sempre meglio strutturate quali Netflix e affini, la sala deve far leva su un aspetto in relazione al quale i vari servizi di streaming e on demand non possono nulla attualmente, perché gli è proprio precluso: l’esperienza. Alla varietà dell’offerta, nonché alle accessibilissime tariffe, la sala è chiamata a rispondere per vie che più le competono, ossia amplificando il livello di coinvolgimento ambientale. In Italia ci abbiamo messo un po’ a capirlo, a capire che il buio ed un panello più ampio rispetto agli schermi domestici non fossero sufficienti; non dopo lo sdoganamento degli impianti home theatre, delle TV a sempre più alta definizione e finanche a certi proiettori di fascia media, per non dire alta nel caso si sia più scafati.

Il cinema pare perciò essere arrivato al punto di dover riappropriarsi di quella componente primitiva che l’ha reso tale, ossia la capacità di stupire. Un tempo era più facile, certo, perché bastava un treno in movimento su scala variabile, più grande oppure più piccolo rispetto alle dimensioni naturali, per meravigliare chiunque stesse osservando. Oggi, ubriachi d’immagini come siamo, puntare sui contenuti non promette gli stessi risultati, di certo non nel breve termine. L’unica perciò resta puntare appunto sull’amplificazione, che molto prosaicamente significa espansione: sale più capienti, con schermi ancora più grandi, cose che insomma buona parte degli spettatori ancora oggi non possono realizzare all’interno delle mura di casa.

Per dare contezza circa il fatto che non si tratti di una mera preoccupazione accademica, conviene subito menzionare una delle implicazioni più pratiche di un simile sviluppo. E per farlo mi riallaccio a quanto detto in merito alla programmazione di questo nuovo multisala e alla promessa che il tenore sarà non tanto diverso rispetto a quanto si vede in sale come l’Anteo, perciò principalmente film non mainstream. I potenziali scogli sono due: uno di ordine meramente “performativo”, l’altro invece inerente all’audience. Entrambi a loro modo legati, e cerchiamo di illustrare in breve perché.

MAINSTREAM VS. NON MAINSTREAM

Quale tipologia di prodotto infatti beneficia maggiormente di uno schermo immenso, con un impianto audio di prim’ordine? Un film di Haneke o uno di Michael Bay? Rischio di dire uno sproposito: un contesto come quello descritto sopra, pannelli molto grandi in sale capaci di contenere più gente del solito, sembra quasi essere concepito per un tipo di esperienza à la Transformers piuttosto che Happy End. Perché la gente dovrebbe pagare il biglietto per un film che può benissimo vedere, al di là dei giudizi di merito, sul proprio PC? Posto che qualunque film possa essere visto sul proprio PC, è evidente che certe produzioni, quelle che maggiormente spingono su effetti speciali e misure spettacolari in generale, tendano a persuadere con maggiore incisività ed attrarre verso la sala.

Certo, questo è un problema che nasce prima ed è più radicato rispetto alla costruzione di sale più adeguate ai tempi, per così dire; nondimeno, fino a che punto creare un ambiente di questo genere non informa, per forza di cose, l’offerta? Ovverosia, possiamo davvero aspettarci che sale che facciano leva principalmente sul “luogo cinema”, dunque sull’esperienza, non finiscano col dettare le regole sul tipo di programmazione da imporre? Alcuni, sempre nel milanese, ricorderanno la “lussuosa” sala vip dell’Odeon, in via Santa Radegonda: una sala di per sé normalissima, solo con dei divanetti monoposto reclinabili al posto delle normali poltrone e la possibilità di fare aperitivo, incluso nel prezzo (che ovviamente era alto). E i film? Tanto per cominciare lo schermo era più piccolo della media e, giusto per capire di che si tratta, la maggior parte delle foto che giravano a suo tempo per promuovere questa iniziativa erano state scattate spalle allo schermo, come se appunto ciò che poi si andava a vedere fosse a conti fatti secondario.

RITORNO ALLE ORIGINI?

Paradossalmente però, come ravvisa Francesco Casetti nel suo La galassia Lumière, lungi dal costituire un traviamento di questo mezzo, potrebbe trattarsi di una sorta di ritorno alle origini, proprio per via di quello stupore di cui sopra, suscitato non tanto da quanto passa all’interno dello schermo ma dalle condizioni in sé attraverso cui si prende parte al rito. Non nella stessa misura, è chiaro, ma al cinema non resta che puntare sull’insolito, sullo smuovere lo spettatore con gli strumenti che gli sono propri. Perciò l’evento in luogo dell’abitudine, rendere quanto più unica possibile l’esperienza che comporta il partecipare ad una proiezione, passando non solo dalla sopracitata espansione ambientale ma, di conseguenza, anche dall’ampliamento in termini numerici, restituendo a questa tipologia di attività quel carattere collettivo che praticamente fino a ieri le era connaturato.

Non meno paradossale, per certi versi, è perciò che certo cinema, chiamiamolo per convenzione “d’autore”, ché indipendente è forse dire troppo, potrebbe trovare una propria collocazione proprio sotto il manto dei Netflix, Amazon Prime etc. Tutto ciò concerne lo statuto di verosimiglianza, che non abbisogna necessariamente di un contesto in cui tutto è “ingigantito”, espanso, restando ad un termine che abbiamo già adoperato. Fenomeni come YouTube, prima ancora di qualunque altro servizio di streaming a pagamento, ci hanno dimostrato, e da tempo, che il pubblico è di gran lunga più disponibile a passare anche ore su certi lidi purché ciò che vede sia quanto più verosimile, se non addirittura reale – al netto del deficit d’attenzione che si riscontra in maniera ancora più inequivocabile. Una componente, questa, che attiene più ad opere per l’appunto non mainstream, addirittura di nicchia in alcuni casi, e che hanno un disperato bisogno di essere viste prima ancora che essere viste a determinate condizioni. Si pone a questo punto il problema economico, riassumibile nel seguente quesito: quanto è grande questa nicchia? Ovvero, è abbastanza profittevole da consentire ad una società di servizi streaming e on demand di investirci sopra?

LO SPETTATORE, TRA REALISMO E IMMAGINARIO

Si tratta di ragionamenti che però esulano da quanto abbiamo messo sul tavolo. A prescindere dalle logiche commerciali, il paradosso rimane, ed è alimentato in misura non irrilevante dal recente botta e risposta tra il Festival di Cannes e Netflix, con la prima a difesa della sala e dei film d’autore, mentre la seconda paladina del mainstream (anch’esso già “d’autore”?) dovunque fuorché in sala. Eppure, alla luce di quanto stringatamente espresso fin qui, i luoghi di visione espansi, potenziati, allargati, prediligono proprio quella tipologia di prodotti che Netflix difende, consapevolmente o meno, mentre in realtà i luoghi che sono propri a questo genere di servizi si prestano maggiormente alla “tutela”, quantunque implicita, magari inconsapevole, di quelle opere che in sale “aggiornate” potrebbero trovare sempre meno spazio.

In tutto questo, dov’è lo spettatore? Ebbene, quest’ultimo sta alla porta, mentre attende che si consumi questa ennesima rivoluzione, avendo apparentemente più voce in capitolo rispetto alla realtà dei fatti. Eppure mai come oggi sembra esserci il bisogno di un luogo che restituisca al cinema la sua capacità di suggestionare, di rendere l’immaginario di cui si fa di volta in volta veicolo quanto più accessibile, specie a quelle generazioni che non hanno avuto modo di venire a contatto con questa peculiarità del mezzo. Al tempo stesso, però, non si può dimenticare che cinema è anche altro, non solo finzione ma anche documentario e la miriade di sfumature che ci stanno in mezzo. I luoghi di visione tornano perciò ad essere essenziali per definire il tipo di cinema al quale assisteremo o prenderemo parte nei prossimi anni, sperando che nessuno prevalga in maniera troppo netta sugli altri.