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Venezia 2017, Beautiful Things: recensione del film di Giorgio Ferrero

Festival di Venezia 2017: l’italiano Giorgio Ferrero appronta un’ambiziosa perciò imperfetta “filosofia delle cose” nel suo ammaliante Beautiful Things, uno dei tre progetti di Biennale College

pubblicato 3 Settembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 02:37

Quattro uomini e il loro regno. Beautiful Things è una storia delle cose, o per meglio dire, del loro ciclo vitale. Si sarebbe tentati di vedere in questo ardito e stimolante lavoro di Giorgio Ferrero l’ennesima, stonata critica al consumismo, ma il discorso è più ampio, ma soprattutto meno spietato. Certo, questa tematica non se la passa bene nel corso dei 94 minuti che dura il film, ma il punto di vista è talmente affascinante che sarebbe ingeneroso, oltre che menzognero, limitarsi all’etichetta dell’opera di denuncia, «contro» qualcosa. A dispetto infatti del porsi come esperienza quanto più sensoriale possibile, Beautiful Things racconta quattro storie, magari cinque, niente di più, niente di meno.

C’è chi vive in una distesa sterminata di terra, condividendo tale spazio con una serie di trivelle: la nascita delle cose. C’è chi invece si sposta in continuazione ed un posto chiamato casa non ce l’ha, dato che attraversa il globo a bordo di un’immensa nave container: l’adolescenza delle cose. Un altro ancora testa il suono degli oggetti trascorrendo molto tempo a contatto con una camera anecoica, che pare incida sul fisico e la testa di chi vi si espone troppo: la maturità delle cose. Per finire c’è chi indossa costantemente una maschera, smaltendo tonnellate di oggetti in una fornace: la morte delle cose. Negli interstizi di queste quattro storie che s’intrecciano e si sovrappongono c’è la vita di una bimba, che poi diventa adolescente, su su fino a diventare mamma. Non che quest’ultimo segmento sia del tutto chiaro, ma dei riferimenti piuttosto eloquenti ci sono; e sì, manco a dirlo, sono cose.

Volente o nolente, noi figli del dopoguerra siamo definiti dalle cose: le cose cha appendiamo in cameretta da piccoli, i giocattoli con cui trascorriamo, sempre da bambini, buona parte del nostro tempo; e quando cresciamo le cose non cambiano, solo il loro costo: laddove prima ci si accontentava di un soldatino o di un peluche, ora è una borsa griffata, ora ancora l’ultimo dispendioso ritrovato tecnologico. Basta, il riscontro si limita a questo, senza stare lì ad evocare concetti pesanti e appesantenti come la standardizzazione che questa nuvola di desideri, tutti uguali, comporta; di quello se n’è già parlato, e meglio, fuori dalla sala. Ma chi ha pensato di sbirciare dallo spioncino della porta di coloro che, ciascuno a proprio modo, consente a questo marchingegno di funzionare?

Piccoli, a dire il vero minuscoli ingranaggi di una macchina che si manovra da sé, senza macchinista, o per lo meno, così sembra. I quattro personaggi avvicinati da Ferrero sono già dei reperti, per questo il suo Beautiful Thing potrebbe benissimo già essere considerato un documento, il che non significa per forza documentario, non essendo in questo caso l’ampio significato di questi due termini necessariamente sovrapponibili, anzi. «Il petrolio è ovunque», ci dice l’uomo del deserto: «ovunque» inteso come “in ogni cosa di cui ci siamo circondati da decenni a questa parte”, anche in quelle più impensabili, tipo le commestibili. Non ha, Beautiful Things, il respiro ampio del saggio che ti apre la mente su tematiche sulle quali magari non ti era mai capitato d’imbatterti, né gli interessa; basti guardare all’andamento elegiaco imposto da Ferrero, che mette su una sinfonia, fatta di note alte e basse, ritmi blandi ed altri più movimentati.

Come si sarà intuito a questo punto, vi è una discriminante che più di tutto incide sulla resa di questa danza attraverso l’emisfero: ovvero il suono. In senso lato, effetti, musica e quant’altro compone il tappeto sonoro, voci incluse, modulate, sporcate, amplificate. L’uomo dei mari appronta un’apologia del silenzio, e come lui fa anche anche colui che con suoni e rumori ci convive misurandoli, valutandoli, catalogandoli; il silenzio che non è assenza di suono ma il suo esatto contrario, a questo aspirano tutte queste persone che, consapevolmente o meno, hanno sacrificato le rispettive esistenze per far sì che altri (noi) accumulino ricordi, dunque contribuiscano ad edificare, per sé e per chi ci sta accanto, un’anima. Ma loro? Dico loro, queste isole solitarie in mezzo ad oceani letterali o metaforici? Che ne è dei loro ricordi, le loro speranze, i loro sogni? Sanno che grazie al loro contributo una bambina ricorderà per sempre il gracchiante verso di un robottino di plastica e circuiti, o che mai dimenticherà quel film che la segnò grazie ad un poster?

Beautiful Things ci parla perciò anche di connessioni, quelle che s’instaurano tra persone che in questa vita non avranno modo d’incontrarsi nemmeno per sbaglio ma che in qualche modo sono legati. Dalle cose, certo. Quelle cose che ci definiscono, pazienza se dovrebbe essere anzitutto altro a definirci, magari di ben più etereo, intangibile, fossero questi valori, ideali o che so io; attraverso un lavoro di sound design mozzafiato, Ferrero ci accompagna lungo il corso di una vita, più vite, tante vite, le cui tappe ci accomunano. La Chiesa ci ha insegnato a venerare le reliquie di coloro che sono morti da eroi, dunque santi, informandoci dunque che c’è molto di più di ciò che sembra nelle cose, ossia il segno di coloro che le hanno portate con sé. Non solo, perché queste cose diventano a loro volta canali proprio per via di quell’impronta indelebile che non se ne va via col tempo. In fondo, anche quando saremo altrove, qualora anche solo alcune tra le nostre cose ci sopravviveranno, qualcosa di noi, ciascuno di noi, rimarrà da questa parte. Chissà a far cosa.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Beautiful Things (Italia, 2017) di Giorgio Ferrero. Con Van Quattro, Danilo Tribunal, Andrea Pavoni Belli, Vito Mirizzi e Vittoria De Ferrari Sapetto. Biennale College.