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Venezia 2017, Sweet Country: recensione del film di Warwick Thornton

Festival di Venezia 2017: western australiano con alcuni tocchi notevoli, Sweet Country evoca la questione razziale senza cadere nel tranello del proclama a tutti i costi

pubblicato 6 Settembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 02:27

Fine anni ‘20. L’Australia è un paese sconfinato, troppo, un po’ come nel vecchio West, perciò terra di nessuno. Colonia, ci si serve degli aborigeni per farsi dare una mano, non senza gli immancabili abusi, i locali considerati in certi casi essenzialmente inferiori, tutt’al più bestie da soma. Di certo non è così per Fred Smith (Sam Neill), uno che in questo mondo così nuovo ci si trova per assecondare la Parola di Dio e che quindi manifesta la medesima umanità per chi lì ci è nato e per chi ci è arrivato successivamente. Un giorno alla sua porta si presenta un ex-soldato, Harry March, chiedendo aiuto per finire di costruire una recinzione. Fred non può andare ma, poiché è stata fatta leva sul suo sentimento cristiano, offre al nuovo vicino l’aiuto di un suo collaboratore, Sam Kelly, aborigeno, certo, così come sua moglie e sua figlia, che si trasferiscono per due giorni nella proprietà di March. Qualcosa accade, March rimanda a casa la famiglia per poi tornare a minacciarla, finendo per restarci secco proprio ad opera di Kelly.

Da qui ha inizio la fuga: le autorità, in particolare il sergente Fletcher, inseguono Kelly e la moglie senza però riuscire ad acciuffarlo. Sweet Country è un western con istanze ben precise ma non per questo imposteci con lo zelo apostolico di certi epigoni delle battaglie politiche a tutti i costi anche a costo di farci rimettere tutto il resto. Thornton invece una storia da raccontare ce l’ha e la racconta; non inedita, né nei contenuti né nella forma, che il film piuttosto è alquanto tradizionale. Tuttavia si riescono ad evitare proclami, uscite di pancia, il che, dato il clima, oggi come oggi non è poco.

Inevitabile che a giocare un ruolo non da poco sia l’ambientazione, suggestiva, desolata, inquietante, in relazione alla quale si avverte il costante senso di pericolo. Una giungla in cui alcuni rischiano più di altri, come i neri del luogo, i quali in larga parte si sono sottomessi senza particolari resistenze. Non è così per Sam; proprio all’inizio assistiamo ad una scena in cui viene picchiato da uno dei suoi, per così dire, un nero al servizio di un bianco a che affida al primo il compito di suonargliene siccome Sam poco prima si era ribellato al padrone alzandogli addirittura le mani. Thornton insomma non lesina di inserire personaggi positivi e negativi sia da una parte che dall’altra, evitando perciò di uccidere nella culla un progetto che di per sé non punta affatto a mettere in discussione alcunché, a rompere alcun equilibrio.

Questa sua innocuità, il suo basarsi insomma su un tema più che bazzicato, rischierebbe di ritorcersi contro lo stesso film; senonché l’equilibrio, i toni controllati ci restituiscono una di quelle storie che, pur già conoscendo in qualche modo, si ha sempre voglia di riascoltare o rivedere. Facile lasciarsi andare in certi casi, ma la discrezione ed il buon senso di Thornton stanno tutti in quella scena emblematica, oltre che fondamentale nell’economia del racconto, di uno stupro: la macchina da presa segue placidamente lo stupratore, che con calma olimpionica chiude la porta, le finestre, finché non si è totalmente al buio; qui si consuma il misfatto, che seguiamo solo attraverso il sonoro, senza stacchi, fino a quando, a cose finite, le finestre non vengono nuovamente spalancate, come se niente fosse accaduto. Un’eleganza ma soprattutto una delicatezza che stonano con l’azione, turpe e disturbante.

Irresistibile poi il personaggio di Sam Kelly, uomo tutto d’un pezzo al quale si finisce quasi col volere bene, se non altro a rispettarlo per la capacità di restare a galla, con freddezza, all’interno di un contesto così ostile. Fughe, inseguimenti, uccisioni, il tutto senza che però vi siano mai delle vere impennate, come se determinate vicende facessero parte dell’ordinarietà di quei luoghi; e funziona, perché Sweet Country ti lascia addosso quell’appiccicosa sensazione che opprime, quasi soffoca. Un modo piuttosto intelligente di affrontare questioni sensibili come quella razziale, senza nemmeno elevarla ad unico e solo scopo. Se a qualcuno spiace certo classicismo poi, beh, spiace a noi per loro, dato che di per sé si tratta di una componente neutra; che in questo caso funziona eccome.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Sweet Country (Australia, 2017) di Warwick Thornton. Con Sam Neill, Bryan Brown, Thomas M. Wright, Matt Day, Ewen Leslie, Anni Finsterer, Natassia Gorie Furber, Tremayne Trevorn Doolan, Gibson John e Hamilton Morris. In Concorso.