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Never Ending Man – Hayao Miyazaki: recensione in anteprima

Piccolo ma caloroso, sincero documentario su uno degli ultimi maestri della cinematografia mondiale. Never Ending Man – Hayao Miyazaki è un intimo ritratto dell’ultimo Hayao Miyazaki, lo stesso che ha ingaggiato una sublime battaglia contro natura pur di assecondare un’insopprimibile vocazione

pubblicato 8 Novembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 00:02

[quote layout=”big” cite=”Hayao Miyazaki]Chi agisce come vuole è noioso.[/quote]

Ascoltando Miyazaki pronunciare queste parole pare di leggere il Goethe che scriveva «vivere a proprio gusto è da plebeo; l’animo nobile aspira a un ordine e alla legge». L’eco è quella. Qual è infatti la descrizione che più corrisponde al vero rispetto ad una persona che suole essere definita tradizionalista? Ciascuno a tal proposito certamente coltiva una propria idea, ma siamo pronti a scommettere che in larga parte sarà sbagliata. Lo è nella misura in cui uno pensa a «tradizionalismo» e subito immagina una gabbia fatta di proibizioni e divieti, la prima essendo quella di rimanere ancorato a «ciò che è stato».

«Devo andare avanti», questo dice il maestro Hayao Miyazaki, e non c’è nulla di più sano, più affine ad un uomo di tradizione. Uno che in questo piccolo frammento, più che un vero e proprio documentario, ci viene restituito sotto una luce che fino a prima potevamo per lo più probabilmente supporre. Colui che per una vita ha immaginato e poi disegnato luoghi ameni e creature fantastiche, espressione di un amore ed un’attenzione sconfinati per la natura, ora si trova a combatterla tale natura; la propria, quella di un uomo che invecchia e che non può farci nulla.

Lascia quasi perplessi come mai al maestro interessi così tanto cosa pensi il mondo riguardo al suo ripetuto avanti e indietro in merito alla decisione di smettere di fare film: uno che sente così pressante l’esigenza di farli, non dovrebbe preoccuparsi di ciò che viene percepito da altri. Ma Miyazaki è una persona, e come tale si comporta; giapponese, che perciò coltiva anche un senso dell’onore particolare, per cui dire e non fare significa un po’ venire meno alla parola data, dunque comportarsi male. Se non altro, tuttavia, Never Ending Man ci conferma quali siano state le ragioni di questo suo pensionamento forzato, per fortuna nuovamente rientrato, dato che il nostro sta già lavorando al suo prossimo lungometraggio, basato su Kimitachi ha do ikiru ka (Come vivi?), libro uscito nel 1937 e scritto da Genzaburo Yoshino.

Si fa cenno anche di questo nel documentario, quando en passant Miyazaki dice di aver letto un libro che l’ha molto colpito poiché gli ha consentito di vedere la vita in modo diverso. Un complimento non da poco insomma. Eppure Never Ending Man segue, seppure fugacemente, le travagliate fasi di lavorazioni del primo lavoro del maestro in computer grafica, ossia il corto Boro il bruco. A riguardo colpisce un aspetto in particolare, ovvero la cura con cui Miyazaki si sofferma sulla prima scena, quella in cui vediamo per la prima volta Boro uscire dal suo guscio: ci s’incaponisce maledettamente, giudicandola sempre inadeguata, finché dopo parecchio penare il maestro non trova la misura giusta, ossia circondare il protagonista di tante altre creaturine simili a pesci.

Ma è nel contatto con le nuove leve che emerge la grandezza del personaggio, come in fondo avvenuto in un altro documentario, a dire il vero migliore di questo, ossia Jiro Dreams of Sushi di David Gelb: star lì ad osservare come persone con decenni di appassionato e costante lavoro si relazionano ai più giovani aspiranti, è impagabile. Nel caso di specie, il regista e l’animatore a cui Miyazaki si rivolge sono degli ottimi professionisti, che dispongono di competenze tecniche che il più anziano regista si sogna: eppure eccoli lì, schiacciati dalla profondità e dall’inarrivabile mestiere di un vecchietto che la tecnica l’ha sempre vista tutt’al più come un mezzo, in nessun caso un fine.

Li richiama all’ordine, non senza impartire loro una lezione di cui, se sono furbi, faranno bene a far tesoro: «gli animatori CGI si concentrano troppo sul movimento e poco sulla volontà, ma è quest’ultima che fa muovere». Questi giovanotti sono in grado di operare magie con una tavoletta grafica e software di un certo tipo, ma non hanno idea di cosa ci stia dietro il desiderio di Miyazaki nel vedere una gobba sinuosa sul dorso di Boro. Ricevono e raccolgono layout come un impiegato accatasta pratiche su pratiche, senza mai davvero capire cosa vi sia dietro una modifica appena percettibile, come i peli di Boro, che a dire dello scafato regista «noteranno solo i bambini».

E questo ha voluto rimanere Miyazaki-san, ossia un bambino. Ancora lì a pretendere di creare qualcosa capace di sorprendere le persone, non importa quanto questo li costi: «oramai faccio una fatica tremenda a mantenere la concentrazione, è estenuante». La vittoria dello spirito sul corpo, della vocazione sul limite contingente. Miyazaki indossa sempre un grembiule, come i preti la talare e Jiro la propria divisa; è un modo per ricordare a sé stessi e agli altri che ciò che si fa partirà pure da un singolo ma non ha come fine quella di restare confinato ad una scomoda individualità.

Il regista premio Oscar non ha dimenticato di essere anzitutto un artigiano, ed infatti senza la materia attraverso cui lavora, ossia carta e matita, avverte il disagio, come se non stesse corrispondendo alla missione che è toccata a lui e lui soltanto, nel senso che nessun altro può compierla al suo posto. Forse è anche per questo che il maestro, per il suo primo cortometraggio con una tecnica che non gli si confà, intende raccontare la nascita di un bruco; quel bruco è lui, che vuole rinascere, guardare il mondo con occhi “nuovi”, ed infatti lo dice: «per un nascituro ogni cosa è nuova».

Come lo è il mondo delle ultime tecnologie, quelle per esempio che auspicano un mondo in cui a creare siano le macchine e che fanno sobbalzare Miyazaki-san «sento che la fine è vicina: gli esseri umani stanno perdendo fiducia in loro stessi». La stessa tecnologia che sta fisiologicamente soppiantando metodi che eppure hanno fatto la fortuna di un’industria intera, quella dell’animazione giapponese. Tappa necessaria per Miyazaki, che solo alla fine di questo piccolo/immenso viaggio, come un pellegrino che aveva smarrito la strada (Knight of Cups docet), ritrova il senso del proprio stare al mondo. E pare dire: «ho provato ad essere ciò che non sono, senonché non sono qui per questo». No, non lo è. Ed infatti entro le prossime Olimpiadi di Tokyo, il maestro avrà pronto il suo prossimo lavoro; non è sicuro di vivere abbastanza per vederlo ultimato, ma non immagina altro modo per trascorrere il tempo che gli è rimasto. E sì, ovviamente sarà del tutto disegnato a mano.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]

Never Ending Man – Hayao Miyazaki (Giappone, 2016) di Kaku Arakawa. Con Hayao Miyazaki. Nelle nostre sale da martedì 14 novembre 2017.