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Torino 2017, Arpón: recensione in anteprima

Storia di formazione in terza persona, ossia dalla prospettiva di un adulto. Arpón solleva questioni pressanti senza offrire risposte, al tempo stesso però condensando bene la complessità della vicenda

pubblicato 29 Novembre 2017 aggiornato 27 Agosto 2020 23:18

Germán Arguello è il preside di una scuola in cui evidentemente sta accadendo qualcosa. Noi subentriamo a processo in corso, senza sapere quali siano state le avvisaglie; perciò ci lascia a ragion veduta interdetti assistere a questo tizio sui cinquanta che fruga negli zaini delle ragazze, quest’ultime contrariate ma rassegnate. Tutte tranne una: Cata. Mentre le altre lasciano ispezionare tra le proprie cose, Cata si rifiuta e corre in bagno; parte la scenata, Germán che bussa con forza alla porta, i ragazzi che filmano tutto con i loro smartphone. Interviene una professoressa, Sonia, e si crede che tutto sia finito lì. Ma non è così: il preside trova una siringa e da lì non si torna più indietro.

Arpón, diciamolo senza subito senza fraintendimenti, è un film scritto bene e girato tanto quanto. Semplice, diretto, per nulla scontato. Anzi, il quadro che se ne ricava tende a porsi finanche al di là di certa vulgata facile, con i suoi paletti e i suoi dogmi che, in quanto tali, si ritiene non vadano indagati. Tom Espinoza fotografa con efficacia la situazione attuale, quella all’interno della quale reggere una scuola di ragazzi è un compito assai arduo, reso ancora più difficile dall’impossibilità di esercitare qualsivoglia forma di autorità. Va detto, Germán non è uno che va per il sottile: burbero, se gli mancasse quel briciolo di autocontrollo che a fatica esercita su sé stesso finirebbe con l’alzare le mani alle sue studentesse (anche se…). Eppure è lui l’eroe/anti-eroe di questa parabola, che fa volentieri a meno di celebrazioni e convenevoli, restituendoci la verità dei suoi personaggi così per come sono, nel bene e nel male.

Bravo nel dribblare ogni forma di faziosità, Espinoza ce la fa a condensare la complessità di un contesto del genere, in cui praticamente è impossibile operare per il bene concreto di questi ragazzi. Sia chiaro, se non l’ha fatto il regista argentino non vedo perché dovremmo noi prendere le difese di chicchessia, ma qualcosa si evince da questa storia, e quel qualcosa è che le dinamiche che sono andate imponendosi prevengono ogni possibilità di prendere sul serio la professione dell’educatore. O almeno, questo sembra dirci Arpón.

Certo, obiezione da decenni più o meno esplicitamente sollevata è che prima bisognerebbe appurare cosa significhi «bene», poi capire in cosa consista di volta in volta, ed infine con quale autorità morale un adulto dovrebbe rapportarsi ai giovani per aiutarli a conseguirlo. Non ci sono risposte facili, ed infatti Espinoza non né fornisce nessuna, ché non sta a lui; però le criticità stanno lì per chi le vuole vedere e porsi delle domande diviene automatico. Germán commette degli errori, è evidente, alcuni pure grossolani, altri invece meno evitabili per via di una situazione personale di per sé tutt’altro che semplice. Però non si può negare che abbia a cuore il bene di questi ragazzi, i suoi ragazzi, verso i quali avverte un naturale senso di responsabilità, che lo spinge a sacrificarsi pur di tutelarli.

L’inghippo sta qui, ossia nel capire come sia possibile conciliare l’ovvia, oso dire doverosa necessità di “difendere” questi giovani, anzitutto da sé stessi, con la non meno pressante esigenza di lasciarli liberi, anche di sbagliare se del caso. Sonia ad un certo punto lamenta con i colleghi questo atteggiamento da bastian contrario di una sua alunna, che la contraddice, a suo dire, per il solo gusto di farlo, aggiungendo che non le interessa che la ragazzina la pensi come lei, purché questo suo modo di fare sia dettato da qualcosa di più nobile che non il contraddire l’insegnante. Eh, vai a capire se sia vero o meno ciò che dice quest’ultima o comunque cosa passi per la testa di quella ragazza.

Sta di fatto che il periodo è delicato, e mentre là fuori si rischia di perdere la testa per via di fenomeni che stanno rendendo il relazionarsi, con le donne, con certe minoranze, categorie, ripensare il ruolo dell’educatore è effettivamente non secondario, anche perché oramai tale occupazione è già altra cosa rispetto a decenni fa, malgrado venga regolato da logiche che sono invece rimaste quasi inalterate. Certo alla fine della fiera Arpón si sofferma sulla condizione di un uomo incastrato tra il proprio imperativo morale e le modalità attraverso cui deve corrispondervi, e forse è proprio per questo che con Germán si riesce a stabilire un contatto, quand’anche la sua situazione ci fosse del tutto estranea.

L’attore che lo interpreta, peraltro, è bravissimo ad incarnare la frattura interiore di questo personaggio, attraverso le sue espressioni, quel volto scavato, il suo tono di voce, le sue movenze, che trasmettono questa fatica a trascinarsi, in pratica così come a livello esistenziale. E alla fine resta un po’ il vuoto, l’amara constatazione che a queste condizioni non se ne esce; così, mentre Sonia vede allontanarsi Germán per l’ultima volta, solo allora, smette di preoccuparsi di sé stessa e chiedersi che senso possa oramai avere tutto ciò che sta facendo.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Arpón (Argentina, 2017), di Tom Espinoza. Con Germán de Silva, Nina Suárez Bléfari, Ana Celentano, Laura López Moyano, Marcelo Melingo e Luciana Grasso.

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