Home Recensioni Molly’s Game: recensione del film di Aaron Sorkin

Molly’s Game: recensione del film di Aaron Sorkin

Malgrado una calamitante Jessica Chastain, il debutto da regista di Aaron Sorkin si perde nel suo stesso argomentare. Molly’s Game è incerto così come la sua protagonista, ed allora di quest’ultima ci sfugge ciò che davvero valeva la pena conoscere

pubblicato 18 Aprile 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 21:05

A un passo dal traguardo di una vita, Molly Bloom (Jessica Chastain) è vittima di un incidente che la vede rovinosamente ruzzolare fuori pista. Sin da piccola si è allenata per quel momento lì, fregata da qualcosa che non poteva controllare, non importa quanto sangue abbia buttato con quegli sci ai piedi. Già una volta era caduta, da piccola, e le avevano detto che non ce l’avrebbe più fatta, che doveva essere grata se fosse tornata a camminare; lei torna, anzi, si rialza più forte di prima. Come riprendersi però da una seconda botta del genere?

Molly’s Game segna l’esordio di Aaron Sorkin dietro la macchina da presa, va da sé, con una sceneggiatura scritta di suo stesso pugno. È la storia di questa giovane donna, oltremodo intraprendente, che mentre cerca di darsi da fare per tirare a campare, incappa in un datore di lavoro che ha le mani in pasta in una delle bische clandestine meglio frequentate di Los Angeles. Molly del Poker non sa nulla, ma stando lì davanti al monitor di un laptop per tutto quel tempo, osservando i giocatori, parlandoci, due o tre cose le impara. Impara anzitutto che si possono fare tanti soldi, perciò, non appena il tizio che la tratta come fosse una dipendente qualsiasi gliene dà occasione, lei si prende tutto ed inaugura la sua di bisca, presso la suite di un esoso hotel. Sorkin però ci dice anzitutto che Molly è nei guai con l’FBI, ed allora il film, da quel momento in avanti, ha il compito di svelarci come si sia arrivati a quel punto.

Sta probabilmente qui uno dei problemi di Molly’s Game, forse non il più limitante, ma certo è che il suo ce lo mette. C’è una vecchia regola che circola tra gli sceneggiatori di Hollywood, bravi o meno che siano, che recita il seguente principio: «show, don’t tell», ossia mostra, non spiegare. Come tutte le regole, vi sono certamente delle deroghe, e vivaddio che sono contemplate; vale per esempio coi film cosiddetti verbosi, quelli in cui si parla tanto, che traboccano dialoghi, per forza di cose centrali. Sì, questa è un’ottima eccezione. Senonché il film di Sorkin non sembra essere stato concepito per ruotare attorno a certi seppur brillanti dialoghi: intendiamoci, il Sorkin sceneggiatore si vede, ed è il competente, bravissimo scrittore di sempre. Solo che si vede troppo. Ci torneremo.

La voce fuori campo, opportuna ed eccezionale nell’introdurre la vicenda in quel modo così incalzante, un attimo dopo si fa invadente, e non smette di esserlo praticamente sino alla fine. Il regista riprende Scorsese ma, non potendo contare sulla medesima padronanza, strafà, ed allora quello strato sovrapposto diventa di troppo. Ci sono battute, botta e risposta che sulla carta funzionano alla grande, ed in fin dei conti un loro perché ce l’hanno pure su schermo: il problema è che un racconto del genere non può poggiare anche solo in parte su certe componenti. Ed è particolare che una cosa del genere si possa dire rispetto al film di uno dei più significativi sceneggiatori che operano nell’industria dorata, nonché tra i più celebrati.

C’è questa ricerca quasi spasmodica, o comunque palpabile in eccesso, verso una brillantezza che invece dovrebbe emergere attraverso altri canali che non le analisi estremamente lucide di Molly o certe sue uscite geniali. Perché sì, questa è la storia di un genio, ed è quintessenzialmente americana, nel senso di quelle che vedono il protagonista non arrendersi mai, anzi, quanto più grandi sono gli ostacoli tanto più decisa ed efficace è la reazione. L’impressione è che in mezzo a questa congerie di bei propositi, tra Nietzsche e Ralph Waldo Emerson, si perda per strada Molly, la persona non il personaggio. Il suo dramma, in fin dei conti, ci resta in larga parte precluso; voglio dire, chiunque s’accorge che la donna in questione è chiamata ad affrontare situazioni complesse, ma quasi in nessun caso avvertiamo cosa stia vivendo lei calata in tali situazioni.

Questo perché si cade, immagino inconsapevolmente, nell’indesiderato effetto di sottoporci Molly quale espressione di qualcos’altro anziché di sé stessa: della forza delle donne, di una certa cultura, finanche della sua famiglia magari, tutto fuorché essa stessa. Non si tratta di discrezione, tatto se vogliamo, ma proprio di un’evidente fatica nel restituirci in maniera più ampia e profonda possibile le difficoltà, ma soprattutto le ripercussioni concrete nell’agire di questa persona, e perciò negli eventi in cui rimane coinvolta. Quando, per esempio, Molly va dall’avvocato (Idris Elba), la sua figura viene in qualche modo umanizzata, anche lei bisognosa d’aiuto dopo aver fatto tutto da sola. Non so come una donna possa reagire all’ultimo atto del film, con la protagonista che viene sensibilmente ridimensionata prima dell’immancabile celebrazione finale; tuttavia qualcosa s’inceppa proprio nel racconto, che diventa insincero nella misura in cui vuole convincerci di certe cose (tipo l’accettabile ancorché inaccessibile coesistenza di genio e umanità) più attraverso ragionamenti che eventi. La razionalità sopra l’azione insomma.

Ecco allora una delle possibili chiavi, ovvero che a far difetto in Molly’s Game potrebbe esattamente essere ciò che invece avrebbe dovuto impreziosire, ossia l’eccesso di competenza. Sorkin a conti fatti, anche quando veste i panni da regista, rimane in fondo un asso della sceneggiatura e non riesce a fare a meno di mettere in chiaro questa cosa; quel retrogusto che ci lascia il suo film non si spiega altrimenti, se non con questa corsa, del tutto involontaria, in direzione di un compromesso tra un film intelligente, a tratti addirittura colto, ed uno che deve a tutti i costi mantenere la forma e dunque la sostanza del prodotto costoso e perciò appetibile al grande pubblico.

Ricorda un po’ l’American Hustle di David O. Russell, solo che lì l’aspetto ludico appare più centrato, perciò si tende ad essere non solo più clementi ma addirittura ad accettare con più gusto quel suo tono così rarefatto ma al contempo spassoso, senza stare troppo a contemplarne la pressoché inesistente profondità. Diverso il discorso con questo di film, al cui cuore troviamo tutt’altro tipo di vicenda, simile ma sensibilmente diversa, che nel gioco, se proprio si vuole, trova tutt’al più la molla del riscatto, catalizzando la lotta contro il proprio demone, che, nel caso del personaggio della calamitante Chastain, è quello della sconfitta, quella vera, non solo quella sportiva. Il gioco, dunque, più che di Molly è di Sorkin, poiché è lui a dare le carte: qualcosa in cui pochi sono altrettanto bravi, se non fosse che a un certo punto il mazziere si trovi nella scomoda posizione di dover chiarire pure perché sia il migliore di tutti.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Molly’s Game (USA, 2017) di Aaron Sorkin. Con Jessica Chastain, Idris Elba, Kevin Costner, Michael Cera, Jeremy Strong, Bill Camp, Chris O’Dowd, Samantha Isler, Brian d’Arcy James, Madison McKinley, Natalie Krill, Joe Keery, J.C. MacKenzie, Graham Greene, Justin Kirk, Angela Gots e Stephanie Herfield. Nelle nostre sale da giovedì 19 aprile 2018.