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Cannes 2018, Yomeddine: recensione del film di A.B. Shawky

Festival di Cannes 2018: corroborante on the road per le vie d’Egitto, Beshay ed il piccolo Obama alla ricerca delle proprie radici, come se fossero una famiglia

pubblicato 10 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:28

È un film dalla parte del pubblico, Yomeddine, su questo non v’è dubbio. Di solito si tende a dare un’accezione negativa a considerazioni del genere, vuoi per pregiudizio, vuoi perché effettivamente non è così frequente trovare dei buoni esempi di cinema popolare. Abu Bakr Shawky, che l’ha scritto e diretto, ci tiene che lo spettatore segua questo particolare viaggio di un lebbroso ed un orfano nubiano lungo le strade dissestate di un Egitto che i nostri protagonisti, lingua a parte, conoscono praticamente tanto quanto noi. L’idea è per ciascuno di loro saperne di più sulle rispettive famiglie, rendendosi solo alla fine conto che lo sono già, una famiglia.

Beshay è stato abbandonato da piccolo presso un lebbrosario; ora è guarito ma i segni rimangono, sia nel volto deturpato che nelle mani. Lo vediamo, proprio con quelle mani devastate dalla malattia, raccogliere roba tra i rifiuti; la sua, va da sé, è una vita estremamente dura, al di là del male che lo ha colpito da piccolo. Il suo presente si mescola coi ricordi del passato, l’abbandono, quel posto di cui quasi gli mancano «sia le buone che le cattive persone». Obama, il piccolo orfano, lo segue senza mai specificare davvero il perché, e forse non lo sa nemmeno lui. Finché i due non s’imbarcano in questa avventura on the road, in sella a un asinello, poi scroccando viaggi aggratis su treni tutt’altro che recenti, incappando in personaggi non meno pittoreschi che danno loro una mano.

Vengono derubati, insultati, inseguiti, minacciati, ma loro due stanno sempre insieme, procedendo quasi per inerzia, basta quasi sopportare, resistere, tenere duro un altro po’, ché poi qualcosa succede. Esatto, parliamo di quei classici feel good movie di cui a non pochi piace dire, se non male, di certo non bene, eppure le buone intenzioni non travolgono nemmeno per un istante la tenuta di un film che invece, quasi a sorpresa, rimane in piedi dall’inizio alla fine. Ci sono siparietti, tipo quelli nell’autorimessa col tizio senza gambe, che sono di una leggerezza tale da comportare dei rischi tremendi: in certi casi far crollare tutto è un attimo. Ed invece si sorride, con una battuta peraltro scontata, che quasi sai che arriverà, se hai capito un po’ qual è l’andazzo. Eppure…

Eppure nel suo conferire questo taglio vagamente art house, Shawky indovina pure la chiave di lettura, che passa da personaggi con cui si può stabilire una sorta di contatto al di là della “facile” condizione. Allora il vero problema per Beshay, per esempio, non è la menomazione in sé, quanto il modo in cui è percepita dagli altri, il suo coprirsi il volto quasi per non recare scandalo nel prossimo. Il pudore, ecco una cosa che spesso manca quando si raccontano vicende di questo tipo. In Yomeddine ce n’è abbastanza, e lo si coglie senza necessariamente razionalizzare: avverti che non si è ecceduto, che i toni sono quelli opportuni, e che perciò t’interessa sapere dove esattamente le peripezie di questa improbabile coppia li sta conducendo.

Tifiamo per loro insomma, e una volta tanto è giusto concedercelo, senza peraltro rivendicazioni o denunce. Perché sì, altro aspetto in relazione al quale più di qualcosa va riconosciuto a Shawky, non si avverte alcuna istanza, alcuna lamentela rispetto ad uno status quo comunque insostenibile; non si banchetta sulle situazioni-limite sia di Beshay che di Obama, dandole piuttosto per scontate, non perché giuste bensì nell’ottica di ordinarie ingiustizie. Anche per questo il tutto scorre senza intoppi e si segue meglio il racconto picaresco di due personaggi destinati miseramente a fallire e invece no. Non come però accade in certi film che giocano a carte scoperte perché in fondo dei profili sui quali si soffermano non interessa nulla, se non nella misura in cui possono ricevere qualcosa da loro; il regista egiziano sa che il materiale scotta e che senza i doverosi accorgimenti rischia di bruciare e bruciarsi.

Non succede. Puntando su un’impostazione classica, connotata quanto serve al contesto entro cui è inserita, Shawky la sua scommessa la vince. Yomeddine è infatti un ritratto garbato, a tratti tenero, su due outcast che in mondo che è già patria di outcast tentano di restare in superficie; la differenza la fa la grazia con cui ci riescono, facendo sembrare questa loro mezza impresa quasi senza sforzo. Noi sappiamo che non è così, nondimeno non possiamo fare a meno di crederci. Un film che non ha paura dei sentimenti, per questo evita alcun sentimentalismo; è raro vederne in concorso a Cannes.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Yomeddine (Egitto/USA/Austria, 2018) di A.B. Shawky. Con Rady Gamal, Ahmed Abdelhafiz, Shahira Fahmy, Mohamed Abdel Azim, Osama Abdallah e Shehab Ibrahim. In concorso.

Festival di Cannes