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Papillon: recensione in anteprima

Impresa ardua quella di Michael Noer, chiamato a rendere accessibile la radicale parabola di Papillon, quasi cinquant’anni dopo il film di Franklin Schaffner. Ne viene fuori un ritratto per lo più incolore, adeguato al periodo forse, molto meno alla vicenda

pubblicato 26 Giugno 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 19:00

Nella Parigi sregolata, satura di quei ruggenti ’20 che eppure oramai si è lasciata alle spalle, Henri Charrière (Charlie Hunnam) si dà alla sua notte brava insieme alla sua Nenette (Eve Hewson), la prostituta di cui è innamorato, e lei ricambia. Una prima parte laccata, euforica nel suo essere artificiosa, che ci dà contezza di quanto spensierata potesse essere malgrado tutto l’esistenza in quel periodo lì. Qualche sequenza dopo capiamo tuttavia che tutto ciò serve solo per contrasto: in piena notte infatti Henri viene prelevato dalla polizia. L’accusa è quella di avere ucciso un pappone qualche ora prima, il che non è vero. Tanto basta comunque per incriminarlo e mandarlo nella Guyana francese a scontare una pena che, oltre che ingiusta, si rivela disumana. Henri ha anche un nomignolo, un soprannome insomma: Papillon.

C’è un momento in cui questo rifacimento, che guarda più al libro che al film con Steve McQueen del ’73, qualcosa da dire ce l’ha e prova a dirla come può. Papillon è in isolamento per aver tentato una fuga pressoché impossibile; la sua situazione peggiora allorché qualcuno “da fuori” lo aiuta alleviando la sua pena con qualche razioncina di cocco; scoperto, si rifiuta di rivelare il nome del buon samaritano ed allora la pena viene inasprita, in modi che lasciamo scoprire a chi vorrà. Non è che Noer ripieghi su chissà cosa, perché il suo resta comunque un lavoro che deve tener conto di chi guarda, per usare un eufemismo, in linea con la natura del progetto. Quei silenzi, però, quel seguire un solo personaggio che va lentamente sfasciandosi dentro a una cella sporca, senza cibo, senza nessuno con cui parlare: meno forte di una a caso tra le scene meno forti di Hunger, vero, ma è lì che si avvertono quei pochi scampoli di vita di cui questo film è capace.

E forse non poteva essere diversamente. La storia è potente, molto, ancor più perché vera. E verte su questa improbabile amicizia tra un criminale di professione come Papillon ed un furfante, un falsario, come Dega (Rami Malek); quest’ultimo ha i soldi, Papillon il fegato, oltre che il fisico, ecco perché conviene collaborare, unendo ciascuno i propri “talenti” per tentare di sopravvivere in mezzo a quell’inferno. Sappiamo che è così, eppure non tutto torna. La scintilla tra Hunnam e Malek in realtà non sembra scattare mai, e questa sorta di fratellanza che s’instaura tra i due, quantunque vera, suona insincera, posticcia.

E dire che Michael Noer ha familiarità con la tematica, dato che il suo debutto, diretto a quattro mani con Tobias Lindholm, R, era incentrato proprio sulla vita dentro a un carcere. Espunta però la venatura simil-documentaristica, per applicarvi sopra l’inevitabile patina, tanto, troppo si perde; ed è un po’ il limite di tutti questi lavori che intendono raccontare storie dure, sporche, indossando però i guanti di seta. C’è un pubblico là fuori, si capisce, e che l’incipit sia di suo destabilizzante ce lo suggerisce il fatto stesso che in fin dei conti riesca a sopravvivere ad un trattamento del genere; nondimeno la dissonanza si percepisce, anzi, quasi costantemente ci viene sbattuta sul grugno.

L’inconciliabilità tra una messa in scena fintamente rozza ma in realtà impreziosita da un’attenzione formale sproporzionata rispetto alle premesse, e appunto la vicenda, il contesto, i personaggi, appare perciò La sfida, con l’articolo in maiuscolo. La stessa che, non per niente, viene quasi sistematicamente non superata, perché effettivamente ardua, che richiede uno sforzo ed una capacità di mediare quasi sempre disattesi, tra l’esigenza di raccontare e quella di farlo secondo schemi e canoni accessibili.

Il viaggio di Papillon è francamente insostenibile, e ci riferiamo proprio a quanto accadde all’uomo, il quale viene messo alla prova ben oltre quanto persone ben più ordinarie sarebbero capaci di sopportare. Papillon, il film, invece, lo si vede per lo più remare contro questa parabola così radicale, proprio perché nei modi e nella forma si pone all’opposto, ossia pavido, lanciato nella convenzione. Il che è beffardo, se si pensa a quanto estremo sia pressoché ogni aspetto di questa storia. Non è per caso, dunque, che tutto si riveli così poco interessante, una valutazione per cui non serve scomodare chissà quale abilità interpretativa, sulla quale non si può nemmeno indulgere più di tanto visto quanto il film di Noer arranchi. Volutamente, perché Papillon è concepito per smussare quelle punte che dovevano farci sentire qualcosa; e una lancia senza punta che senso ha?

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Papillon (Serbia/Montenegro/Malta, 2018) di Michael Noer. Con Charlie Hunnam, Rami Malek, Tommy Flanagan, Eve Hewson, Roland Møller, Michael Socha, Brian Vernel, Christopher Fairbank, Nina Senicar e Ian Beattie. Nelle nostre sale da mercoledì 27 giugno 2018.