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Venezia 2018, The Ballad of Buster Scruggs: recensione del film dei fratelli Coen

Festival di Venezia 2018: summa meticolosa della prosa coeniana, le loro ossessioni cinematografiche, racchiuso in un lungometraggio antologico composto da sei spiazzanti racconti

pubblicato 31 Agosto 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 17:02

C’è un passaggio in uno dei film più sottovalutati dei fratelli Coen, ossia A Serious Man. Il padre di un alunno del professor Gopnik va a trovare quest’ultimo a casa; vittima di un’incomprensione, il professore si dice confuso, non capisce, sentendosi rispondere una cosa ed una soltanto: «accetti il mistero». Lui insiste, ma niente… «accetti il mistero». Si capisce molto da quella scena, che inevitabilmente si lega ad un’altra avvenuta precedentemente; capiamo molto di cosa si parla quando si parla del cinema dei Coen.

The Ballad of Buster Scruggs è forse il compendio più onnicomprensivo e fedele di tutto ciò che li ha sempre mossi. Non una serie antologica, come per lungo tempo sostenuto, bensì un film antologico, proprio a rimarcare questa unità di fondo dalla quale, per loro stessa ammissione, non intendono recedere. Sei storie, tutte ambientate nel far west: bizzarre, spiazzanti, tenere, spaventose, tristi, sorprendenti. Si sprecano gli aggettivi perché in questo loro diciassettesimo film ritroviamo davvero tutto, e l’impressione è che davvero la struttura episodica fosse l’unica per venirne a capo, per contemplare questa summa.

Il solito teatro dell’assurdo, già nel primo episodio, un musical mascherato da commedia che finisce come un film d’animazione, i Coen c’introducono l’irresistibile personaggio di Buster Scruggs, da cui sarà dura separarsi per far spazio agli altri racconti. Ha poco senso stare qui ad elencarli tutti, sia perché non servirebbe a dare contezza circa la summenzionata coerenza rispetto alla filmografia di riferimento, sia perché non se ne potrebbe trasmettere la portata. Meglio una panoramica, rintracciare quei pochi elementi che ci aiutino a leggere l’entità di un’operazione all’apparenza così semplice eppure così complessa, oserei dire meticolosa.

Uno pensa che l’entra ed esci da queste storie finisca col rivoltarsi contro i due registi, dunque contro di noi, che per ben sei volte dobbiamo fare tabula rasa e ripartire da zero; invece no, sia che si segua il fil rouge inerente appunto alla prosa coeniana, sia che ci si lasci semplicemente trasportare da queste sei storie, per il resto diversissime tra loro, per approccio, svolgimento e conclusione. C’è di tutto, dalla già citata commedia all’avventura, passando per il western più “puro”, fino al cupo episodio conclusivo in cui riecheggia Edgar Allan Poe, a bordo di una diligenza mentre cinque sconosciuti discutono sulla natura umana.

Quasi tutti dal finale aperto, così come ci suggerisce lo stesso testo, dato che tra una storia e l’altra abbiamo proprio modo di leggere le pagine del libro, con tanto di tavole disegnate, che nel mostrarci le ultime righe di ciascun racconto ci danno modo di capire che idealmente quella vicenda lì ha un seguito, siamo noi che a un certo punto dobbiamo allontanarci. A chi sa vedere non può sfuggire quell’intromissione coatta di un presunto caso o fato, l’insensatezza di certe situazioni che in realtà presuppone sempre un ordine, solo che il più delle volte resta inaccessibile, indecifrabile. Ciò che ha sempre reso affascinante i film dei Coen, e questo non è senz’altro da meno, sta proprio nel mistero su cui vengono di volta in volta imperniati.

C’è un momento in cui Buster fa un discorso, quasi una licenza poetica, come se a parlare fossero proprio i Coen e dice che non ci si può fare condizionare da ciò di cui l’uomo è tendenzialmente e mediamente capace, esortando a rispondere sempre con un sorriso mosso da sincera giovialità. Non ne vale la pena insomma adirarsi. È l’atteggiamento di Lebowski, quel personaggio da cui c’è chi ha tratto una filosofia, quasi una religione. Racconti duri, con personaggi che, pur talvolta nella goffaggine, denotano una virilità unica, come tanti di quelli che hanno orbitato attorno ai mondi costruiti dai Coen.

The Ballad of Buster Scruggs è anche un film sul cinema, o per meglio dire sulle loro ossessioni cinematografiche, quelle presso le quali hanno attinto contribuendo alla costruzione del loro linguaggio, sempre così personale, non replicabile malgrado i numerosi tentativi da ogni dove. Generi che i Coen rimasticano per poi restituirceli con quel taglio così smaccatamente personale, insomma sublimandoli, servendosene come base di partenza sia in virtù dell’amore che i due fratelli hanno per questo mezzo, sia perché certi codici fungono da garanzia di qualcosa, quella tradizione che non va dimenticata ed alla quale infatti sistematicamente ritornano per sapersi come orientare, dopodiché fanno tutto loro.

Contravvengo in chiusura a quanto mi sono imposto poco sopra in merito al non soffermarmi sui singoli episodi, tutti da vivere e da scoprire. Ce n’è uno però, quello di tale Billy Knapp, il quinto (The Gal Who Got Rattled), che più di ogni altro svela pure quel lato così ferocemente umano dei Coen, che si tende ad immaginarsi in tutto e per tutto distaccati, mentre non sono affatto nuovi a certe note. Pur restando nell’ambito del grottesco, dato che questa è la lente attraverso cui leggere un’esistenza della quale troppo ci sfugge, ed allora inutile dolersene, tanto non verremo mai a capo di quell’enigma che sono le persone, le cose che dicono, fanno o pensano. Quando possibile, perciò, meglio un sorriso, a volte finanche una risata.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]

The Ballad of Buster Scruggs (USA, 2018) di Ethan e Joel Coen. Con James Franco, Tim Blake Nelson, Zoe Kazan, Saul Rubinek, Bill Heck, Charles Ash, Katy Bodenhamer, Brian Brown, Richard Bucher, Jackamoe Buzzell, Tyne Daly, Tim de Zarn, Sam Dillon, Ethan Dubin, Bill Foster, Grainger Hines, Ralph Ineson e Shawn Lecrone. In Concorso.