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Venezia 2018, American Dharma: recensione del film di Errol Morris

Festival di Venezia 2018: Errol Morris intervista Steve Bannon, una delle figure più odiate e temute da quella parte di mondo che vede nei movimenti populisti la minaccia per eccellenza della nostra epoca

pubblicato 5 Settembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 16:52

8 novembre 2016, negli Stati Uniti d’America si assiste ad una delle disfatte politiche più significative degli ultimi decenni: Donald Trump, dato fino a poche ore prima per perdente, e con largo distacco, vince le presidenziali e sale alla Casa Bianca. Forse mai gli USA sono stati così divisi, la cosiddetta «maggioranza silenziosa», che non sarà maggioranza assoluta ma è pur sempre una fetta oltremodo cospicua, ha parlato, consegnando le chiavi del Regno al più osteggiato, odiato e controverso candidato di sempre. Come è stato possibile tutto ciò? La risposta, ci suggerisce American Dharma, sta in due semplici parole: Steve Bannon.

Quello di Errol Morris è lavoro necessario, su una tematica urgente, che riguarda Trump fino a un certo punto, per il resto trascendendolo. È come se Morris attraverso questa sorta di video-intervista più elaborata volesse in qualche modo esorcizzare una sua paura, magari contribuendo ad esorcizzare pure quella di tanti che, come lui, vedono in Bannon e tutto ciò che rappresenta un nuovo Male Assoluto. E lo fa dandogli la parola, studiandolo, per quanto possibile, lasciando che, una volta tanto, sia lui a raccontarsi, a chiarire, a smentire o confermare almeno le più salienti delle notizie che lo riguardano, vere e proprie calunnie qualora non corrispondessero a realtà.

In tutto questo c’entra anche il cinema, per forza. Non solo perché, per chi non lo sapesse, Bannon è stato ed è tuttora anche un filmmaker, con all’attivo svariati documentari di propaganda; ma anche perché in fondo non è inopportuno affermare che proprio il grande schermo abbia avuto un impatto tutt’altro che irrilevante sulla sua formazione. Morris riprende alcuni film storici, della Hollywood che fu, quella che, consapevolmente o meno, anticipava qualcosa, o semplicemente tastava il polso di una nazione intera romanzando il tutto come nessun altro. Talora è il John Wayne di Sentieri selvaggi (1956), talaltra il Gregory Peck di Cielo di fuoco (1949), senza scordarsi dell’Alec Guinnes de Il ponte sul fiume Kwai (1957).

Tutti film con cui Bannon è cresciuto, che avrà visto chissà quante volte, esercitando su di lui un fascino che va ben oltre i meriti artistici: Morris a tratti rimette in scena come può scene tratte da questi film, facendogliele però interpretare appunto a Bannon, la qual cosa ha un potere evocativo e di senso non da poco, volendo pure con una punta d’ironia, come se a quel contesto il suo intervistato fosse rimasto, come se si fosse scordato che in fondo quelli altro non sono che film, per quanto ispirati alla e dalla realtà, pur sempre finzione. Si tratta, peraltro, di un’invettiva velata ma tangibile, lui che ha sempre bazzicato un’altra forma, magari contigua alla finzione, ma più “elevata”, che allo statuto di verosimiglianza, ci dice sibillinamente, sembra tenerci di più, ossia il documentario.

Il tarlo che sembra assillare Morris, che si stia da parte nostra forzando o meno l’interpretazione, è questo: quanto dobbiamo preoccuparci se uno, riversando il cinema nella realtà ottiene ciò che ha ottenuto Bannon o chi per lui, mentre un documentarista, riversando la realtà nel cinema, con ogni probabilità non ha plasmato manco in minima parte l’ambiente in cui opera e vive? Non so se il regista de La sottile linea blu appaia più in apprensione alla luce di tale dinamica, che è fondamentale, o per le idee di cui Bannon si fa portavoce, che comunque, lo dice chiaramente, lo spaventano parecchio.

American Dharma, per quanto sommariamente, descrive un mondo che rispetto a soli dieci/quindici anni fa è davvero altra cosa, quasi un altro pianeta. E qui sta l’inghippo: Bannon, e ancora prima di lui Andrew Breitbart, leader e ispiratore di quello che oggi viene definito il movimento alt-right, a suo tempo ancora in fase embrionale, questo «nuovo mondo» lo conoscevano, più e meglio di altri. Nel mondo in questione l’informazione viaggia in maniera totalmente inedita, il che comporta dei cambiamenti anche, forse soprattutto, rispetto a come si muovono i capitali, dato che alla fine, come lo stesso Bannon evidenzia senza mezzi termini, a fare la differenza sono sempre le risorse a disposizione.

Non dev’essere stato un problema per Bannon: master alla Georgetown, MBA ad Harvard, per anni in Goldman Sachs, fu colui che fra i primi comprese il potenziale dei MMPORG, genere videoludico online a sé stante, grazie alla cui moneta virtuale fece incamerare miliardi di dollari, finché Blizzard, sviluppatore di World of Warcraft non eliminò dall’oggi al domani migliaia di account proprio per porre un freno a questo fenomeno parallelo. Capite?

Il discorso che Bannon, non a caso, fa in relazione alle identità virtuali, gli avatar, nostri alter-ego sulle più svariate piattaforme, anche sotto forma di semplici utenti su un sito, è per certi versi illuminante, non tanto perché certe dinamiche suonino nuove, quanto perché di Bannon tutto si può dire tranne che assimilarlo a un nerd. E se qualcuno, impropriamente, cedesse ad una descrizione del genere, magari portato a darla per buona per via di questa sua familiarità con tecnologia e affini, immaginate quanto possa risultare fuorviante non comprendere meglio, non dico fino in fondo, le istanze di cui si fa portavoce il nostro.

Quella di Bannon è una missione, termine che nell’intervista ricorre a più riprese: l’ex-consigliere di Trump, il cui contributo si è rivelato decisivo per l’ascesa alla Casa Bianca dell’imprenditore newyorkese, è profondamente convinto di essere stato investito dall’alto di questo compito, che in buona sostanza consiste nel liberare gli USA, e dunque il mondo, dal dominio delle Elite, il cosiddetto Enstablishment americano, quel gruppo di pochi che prendono le decisioni per tutti, senza un briciolo di umanità. Per Bannon è e rimane un noi-contro-loro, uno schema da cui non si scappa, che di fatto regola ogni tipo di azione intrapresa da oltre dieci anni a questa parte.

Insomma, le cose sono due, a margine di ciò che si pensa delle sue idee e/o prese di posizione: o Bannon è un folle, che ci ha preso giusto qualche volta e per pura coincidenza, uno da rinchiudere al manicomio non semplicemente in quanto razzista; oppure è un visionario, uno che ha capito e sta continuando a capire svariate cose, e in anticipo su tanti altri. Da come si voglia leggere il suo profilo e la situazione dipende il modo in cui può essere recepita quell’ultima, incalzante profezia, o delirio, a seconda: «it’s coming». Sta arrivando. Cosa? Ecco, cosa? Qualunque cosa sia o possa essere, arriverà tra botti e fiamme, e, a quanto pare, non sarà più possibile seguirne gli sviluppi esclusivamente attraverso lo schermo di un computer o di uno smartphone. Oppure si tratta dell’ennesima uscita delirante, e allora ne rideremo su Twitter, comodamente seduti o in giro, come peraltro facciamo da ormai parecchi anni a questa parte.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

American Dharma (USA/Regno Unito, 2018), di Errol Morris. Con Errol Morris e Stephen K. Bannon. Fuori Concorso.