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Filmmaker 2018, Waldheims Walzer, recensione: l’ansia della colpa collettiva

Il film di Ruth Beckermann ne contiene due: uno rivolto alla cronaca del passato, l’altro alla denuncia del presente. E se tutto sommato si rivela riuscito il primo, lo stesso non si può dire rispetto al secondo

pubblicato 22 Novembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:47

Forte di una carriera politica che lo ha portato per circa dieci anni a ricoprire la carica di Segretario delle Nazioni Unite e lanciare una sua registrazione nello spazio, Kurt Waldheim nel 1986 decide che è tempo di occuparsi di quella che ripetutamente chiama Heimat, la sua Patria, l’Austria. A pochi mesi dalle elezioni, però, emergono sospetti terribili circa il suo probabile coinvolgimento in alcune operazioni condotte dai nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. È un momento storico per l’Austria, che mai come allora ha dovuto fare i conti con le conseguenze di una delle pagine più vergognose.

Ruth Beckermann non ci gira attorno e mette quasi subito in chiaro da che parte sta. Waldheims Walzer è il racconto di come, a dire della regista, quest’uomo politico di successo sia riuscito a farla franca fino a un certo momento, e come lui una fetta consistente di un Paese che fino a quell’episodio non si era davvero confrontato col suo recente passato. Ed è vero, a questa sua ricostruzione, comunque diretta, dato che nell’86 la Beckermann faceva parte di un gruppo che, specie all’inizio, contestò e protestò più di chiunque altro, ebbene questa ricostruzione non è esente da difetti. A tal punto è sentito l’argomento che, nel tracciare un seppur sommario ritratto di Waldheim, si ha l’impressione di perdersi qualcos’altro per strada.

Per dire, da un certo momento in avanti l’ex-Segretario, fino a poco prima rispettato e onorato da mezzo mondo, si ritrova nella tremenda, oltremodo scomoda posizione non tanto di aver in qualche modo preso parte all’opera di deportazione degli ebrei nei Balcani, con particolare riferimento all’episodio di Salonicco, quanto di aver celato questo tutt’altro che secondario passaggio persino nella sua autobiografia. Perché non ne fa menzione? Attraverso Waldheim la regista condensa, riuscendoci però solo in parte, la rimozione di un intero Paese, che fino ad allora si era dichiarata parte lesa, vittima del Nazismo anziché collaboratore a qualunque livello.

Una questione estremamente delicata, che Waldheims Walzer riesce a malapena a sfiorare, pur dovendo riconoscere al film la capacità di mettere in luce quanto ancora oggi l’argomento sia irrisolto. L’enfasi posta dalla Beckermann rispetto agli austriaci, la gente comune che interviene a favore del candidato Primo Ministro, non è infatti casuale, anzi: nell’era di Trump, che è tutto un parlare di ritorno delle destre, fascismo, nazionalismo e quant’altro, l’allusione tutt’altro che implicita rimanda proprio al contesto attuale.

Però, ecco, sarebbe stato più interessante cercare di capire come mai questo rifiuto a confermare certe accuse, ed è un discorso, questo sì, che riguarda non solo Waldheim. Si tace per vergogna o perché non ci si può semplicemente dire apertamente convinti in merito a certe posizioni? Per riprovazione sociale o per paura di conseguenze legali e giudiziarie? Tra l’una e l’altra prospettiva, va da sé, c’è un abisso; un abisso dal quale non si risale se non si prova a capire cosa spinga una persona a coltivare certi sentimenti. Una miopia rispetto alla quale di certo il lavoro della Beckermann poco può fare, forse nulla, ma che nondimeno si muove su quella linea lì.

Non si tratta di dover capire l’altra parte, il che, posso capire, significherebbe in qualche modo legittimarne le posizioni. No, il punto è che i meriti di film come Waldheims Walzer sono quelli a cui forse non si aspira direttamente: anziché denunciare anzitutto il fenomeno in questione, paventando analogie col presente, da una prospettiva puramente ideologica, ciò che, al contrario, viene fuori, è l’inadeguatezza di certe categorie e termini (fascismo, populismo et similia) al fine di leggere e interpretare simili fenomeni, certa nettezza nei giudizi rispetto non ad una pagina specifica della Storia bensì ai danni dei singoli, in relazione ai quali è il buon senso ad imporre la necessità di certe sfumature.

Non meno complessa si rivela infatti la faccenda inerente alla colpa collettiva. Un giornalista intervistato alla televisione austriaca fa notare la differenza tra una Germania che, consapevole delle proprie responsabilità, non ha potuto nasconderle, perciò si disse pronta a bere l’amaro calice fino all’ultima goccia, e un’Austria che, al contrario, da subito prese le distanze, anzi, assunse il ruolo di prima vittima del Terzo Reich, con tutte le ripercussioni non solo morali, ma anche economiche del caso. Una tesi accettata dagli Alleati e che fino a quel 1986 a quanto pare non era mai stata messa in discussione.

Insomma, a suo tempo si volle mettere gli austriaci dinanzi all’assenza di un dibattito, prima ancora che “costringerli” ad un’ammissione di colpa. Ed in questo senso il lavoro della Beckermann ha una sua rilevanza, proprio in quanto ricostruzione di un preciso momento nella vita del suo Paese. Certo, la prospettiva assunta non ci consente di cogliere a pieno certi umori, la portata di un passaggio delicato, significativo, anche se la vera forzatura sta forse nella tempistica, nient’affatto casuale, per cui mettere insieme certo materiale e farci un film oggi è dettato anche dall’intenzione di sottoporre analogie più o meno fondate col presente.

In tal senso Waldheims Walzer si rivela più debole, ossia quando da cronaca di un segmento passato, per quanto parziale ma nondimeno preziosa, si fa velatamente denuncia dello status quo. Ed in fondo tali limiti li evidenzia, questi sì, il film stesso; se infatti stiamo ancora metabolizzando la portata di quanto avvenuto decenni fa, cosa ci dice che si possa essere del tutto lucidi rispetto a fenomeni che si stanno consumando sotto i nostri occhi? Come sul passato, anche sul presente l’ultima parola toccherà alla Storia. La stessa Storia che non smette di tormentare e che sempre impone la sua presenza, ancorché ingombrante, pure quando si vorrebbe voltare pagina, quali che siano le ragioni.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Waldheims Walzer (Austria, 2018) di Ruth Beckermann. Concorso.