Home Torino Film Festival Torino 2018, Dovlatov, recensione: l’anima russa attraverso il travaglio di uno scrittore

Torino 2018, Dovlatov, recensione: l’anima russa attraverso il travaglio di uno scrittore

Dolente ritratto relativo al segmento di vita di uno scrittore divenuto famoso dopo la sua morte. Dovlatov rielabora il dolore di un Paese attraverso la parabola di un singolo

pubblicato 26 Novembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:41

Brèžnev che beve piña colada è un sogno ricorrente di Sergej. Nell’appartamento condiviso in cui vive, la madre lo incoraggia a lasciar perdere il lavoro di giornalista, tanto lei guadagna quanto basta per vivere dignitosamente entrambi. Sergej è uno scrittore, infatti la madre lo invoglia a dedicarsi al suo romanzo, lei che sa cosa è meglio per il figlio. Lui lo sa pure, che quella è la cosa migliore intendo, ma non è convinto; rinvia, si lascia trasportare dagli eventi dell’Unione Sovietica d’inizio anni ’70, atteggiamento condiviso, un misto di rassegnazione e speranza che logorano. Dovlatov è sia il titolo dell’ultimo lavoro di Aleksey German Jr. che il nome del suo protagonista; e ancora una volta un film teso a sondare l’anima russa, passando inevitabilmente attraverso il travagliato secolo XX.

Dovlatov è un film dolente ma al tempo stesso corroborante, che, nello stile del regista, il suo modo di raccontare, è viaggio, percorso, una serie di tappe da cui, di volta in volta, viene fuori una verità, o per lo meno ci avvicina ad essa. La madre di Sergej Dovlatov non è l’unica a spronarlo a dedicarsi al suo romanzo: alcuni poiché vedono in lui quello scrittore che già a otto anni voleva diventare, altri perché gli vogliono bene e sperano che occuparsi di Letteratura sia il modo migliore per tenerlo lontano dal suo attuale lavoro, il cronista. La redazione gli ha infatti affidato un pezzo sulla lavorazione di un film che ha per protagonisti alcuni degli scrittori più celebri a cavallo tra Ottocento e Novecento: Tolstoj, Dostoevskij, Gogol ed altri ancora.

Inevitabilmente espressione della volontà del Partito, il caporedattore non s’aspetta da lui chissà quale inventiva, bensì un tenore preciso, teso ad esaltare questo ennesima celebrazione del Socialismo realizzato grazie appunto al Partito. Ma lui proprio non ci riesce: c’infila ironia, insiste sulla scarsa qualità dell’operazione ed in generale contravviene ad ogni singola indicazione. Il punto è che una condotta del genere può rivelarsi pericolosa, e di questo Sergej ne è perfettamente consapevole. Eppure lui, come quei russi che descrive Solženicyn nel suo Arcipelago Gulag, in preda ad una sorta di cupio dissolvi, insiste, non si tira indietro, quasi sperando che quel momento in cui qualcuno chiederà conto della sua insistenza arrivi più presto che tardi. Lo stesso processo mentale, terribile, di cui erano vittima quelle persone che vedevano ogni giorno sparire i propri vicini, amici, parenti, senza che se ne sapesse mai il motivo: in confronto a quell’attesa snervante, i funzionari che bussavano alla porta di casa erano quasi un sollievo.

A quest’ansia, generale e che più o meno tutti coinvolge in un contesto dove regna il sospetto, Sergej ne aggiunge un’altra, non meno sofferta, ossia quella relativa alla possibilità di stare contravvenendo ad una missione, che è poi la sua vocazione. Non la mera libertà d’espressione, si badi bene, il discorso è più sottile. In quel periodo lì, in quella Russia, per essere presi sul serio bisognava che qualcuno ti pubblicasse, ma Sergej di rifiuti ne aveva già collezionati non pochi. Tuttavia non era solo questo a tormentarlo. Cosa allora? Rispondere a questa domanda, ammesso che sia davvero possibile, equivarrebbe a vanificare l’esistenza stessa del film, che di questo angoscioso percorso ne è espressione piena.

A questo proposito, Dovlatov è un film ambizioso, poiché attraverso il travaglio intimo, personale del singolo, tratteggia quello che è un po’ lo spirito del tempo, arrivando sino a noi, il nostro costante interrogarci in merito al nostro posto, quello che tocca a noi e nessun’altro. Con questi movimenti di macchina appena percettibili, onirici, che ci cullano come in un sogno, che a lungi tratti è un incubo, pur essendo quasi sempre poesia. E la poesia non sempre è ermetica, anche se evidentemente non è nemmeno istantanea, vuole il suo tempo affinché possa concretamente penetrare.

Noi seguiamo lui, Sergej, mentre a sua volta entra a contatto con altre storie, altre vicende, di persone che vivono quell’ansia in maniera analoga eppure inevitabilmente personale. E chi mira a produrre Arte non può che risentire maggiormente di questa cappa opprimente che aleggia e s’attacca, poiché a costoro non basta la serenità del vivere se poi non sono in grado di farsi capire, di consegnare il senso di ciò che intendono dire attraverso le loro opere. Mi rendo conto che ci stiamo lentamente avvicinando al mistero di Dovlatov, quello su cui il film ha il pudore di tacere, preferendo evocarlo, sempre presente eppure mai esplicito. Approfittando, laddove possibile, dell’ironia di questo scrittore del secondo Novecento, quell’umorismo dal retrogusto amaro ma centrato.

Forse che la ricerca di Dovlatov, in fondo, verte sulla Bellezza, scorgerla laddove è difficile, apparentemente impossibile a trovarsi. Ancora di più in una cornice all’interno della quale ciascuno fa ciò che fa senza sapere perché lo sta facendo, e non gli resta che sperare, attingere a quella facoltà che è già anticamera del Bello, ossia appunto la Speranza. Lo si vede quando un uomo recita alcune preghiere per la morte di un amico, sottovoce, perché chi di dovere sa che per fiaccare l’uomo fino a piegarlo deve prima fargli credere che esista solo disperazione. Per Sergej, che per un po’ cede, cede all’idea di non essere in grado di scrivere un romanzo in un tempo in cui c’è ancora chi fa distinzione tra romanzo positivo e negativo (mentre invece, giustamente, il nostro rileva che un romanzo o esiste o non esiste), accettare ciò che gli accade è parte del processo, che però non si risolve lì. E la sua fiducia verrà premiata, in modo inaspettato, certo, ma che dà un senso a quel peregrinare che almeno in parte contempla l’entità e lo spirito di un popolo riflessi in un altro classico della Letteratura di questo Paese, venuto fuori proprio nell’800, che non viene esplicitamente citato da German ma di cui Dovlatov potrebbe per certi versi essere recepito come una sorta di libera trasposizione, ossia I racconti del pellegrino russo.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Dovlatov (Russia, 2018) di Aleksey German Jr. Con Milan Maric, Danila Kozlovsky, Elena Lyadova, Svetlana Khodchenkova e Anton Shagin. After Hours.

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