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Vice – L’uomo nell’ombra, recensione – se Dick Cheney non fosse stato Vicepresidente

Dallo stage alla Casa Bianca, sotto Donald Rumsfeld, alla carica di Vicepresidente degli USA. Sopra Donald Rumsfeld. Con un approccio per certi versi scanzonato ma quasi mai inopportuno, Vice delinea per sommi capi la di per sé controversa figura di Dick Cheney

pubblicato 17 Dicembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:09

A metà corsa, forse poco prima, ecco i titoli di coda; Vice – L’uomo nell’ombra si chiude come una qualsiasi storia americana edificante, il protagonista non un eroe ma nemmeno un normalissimo cittadino che ha trascorso la propria ordinaria esistenza nel più totale anonimato. Si chiude quando Dick Cheney (Christian Bale) è già su con gli anni, una vita spesa in quel di Washington e lo Stato natale del Nebraska, fatta di successi e medi insuccessi, tutte cose che non l’hanno portato ai cieli verso cui anelava ma che nemmeno l’hanno tirato così in basso. Una bella famiglia, una discreta rendita, casa spaziosa e accogliente, al buon Dick non resta che ritirarsi dalle scene, scendere dal palco di quella politica che sì, gli aveva dato qualche soddisfazione, ma che al tempo stesso gli aveva negato i traguardi più grandi, tanto che, nella sarcastica ricostruzione di Adam McKay, alla sua vocazione Cheney alla fine avrebbe dovuto/potuto preferire la famiglia, poi la pesca.

Eppure no, si tratta solo dell’ennesima boutade, un gioco rispetto al quale McKay ci aveva già abbondantemente preparato nel suo penultimo lavoro, La grande scommessa, il cui piglio a questo giro non è intatto, pur restando quel taglio lì una prerogativa importante rispetto al modo in cui viene trattato il discorso su Cheney. A McKay interessano le trasformazioni, quel mutamento che dev’essere anzitutto tangibile, senza equivoci, perciò anche qui prende un volto estremamente noto e lo tramuta in quello di un’altra persona. Bale, il suo calarsi nei panni dell’ex-Vicepresidente degli Stati Uniti d’America, deve di per sé trasmettere un po’ il senso di ciò di cui si sta parlando. E ci si serve di attori famosi, immediatamente riconoscibili, ché già questo è parte di un’operazione, lo sbatterci in faccia il fatto che ciò che abbiamo di fronte altro non sono che maschere, personaggi che operano secondo una natura che non è, al contrario, altrettanto immediata da percepire.

L’argomento, d’altro canto, è spinoso: come si fa a rendere infatti spassoso il resoconto, non importa fino a che punto romanzato, di una persona che ha contribuito, ed in maniera decisiva, ad una campagna e dunque a una guerra che ha fatto registrare in Iraq oltre seicentomila morti? Per questo i toni sono più bassi, certamente più cupi, rispetto a quell’altro tipo d’ingranaggio, non meno pericoloso, di cui a La grande scommessa; per questo Vice non può che essere meno brillante, non importa fino a che punto la prosa sia costellata anche di certi “entra ed esci” tra realtà narrativa e dimensione surreale. A McKay piacciono i cortocircuiti, ci sguazza proprio, forse perché sa che in fondo ciò di cui parla sono storie paradossalmente di per sé noiose, il che è pure la loro forza. Spiego.

Anche in Vice, come ne La grande scommessa, il regista di Philadelphia cerca in tutti i modi di evitare gli ampi scorci, certe panoramiche su un dato fatto o fenomeno; diversamente creerebbe quel distacco, la distanza tipica degli eventi su grande scala, insomma, farebbe notizia, una blanda forma di giornalismo. No, lui vuole entrare nelle stanze, quelle in cui può entrare: per esempio, quando Kissinger si trova nello Studio Ovale per quell’incontro da cui, dice Donald Rumsfeld, scaturiranno decisioni importanti rispetto alla Guerra del Vietnam, noi restiamo davanti alla porta, insieme ad un Cheney non giovanissimo eppure di primo pelo lì alla Casa Bianca, ancora un intern, uno stagista. Scena complementare, quasi contrapposta a quelle degli ultimi tre quarti d’ora o giù di lì del film, quando in quelle stanze dove si prendono le decisioni definitive c’è praticamente solo lui, Cheney, anche quando il consesso è composto da più funzionari, Presidente incluso.

Vice ha il merito, se non altro, di mettere in risalto, in formato intrattenimento, a cosa può portare l’esasperazione di quel concetto che fonda un Paese intero, il sogno americano che si fa arrivismo sfrenato; non tanto l’arricchirsi, bensì quell’altra ambizione che si presenta allorché tali aspirazioni entrano a contatto col Potere, ossia la brama, il desiderio sfrenato di avere il proprio nome sui libri di Storia. McKay incialtronisce un po’ il tutto, anche a rischio di cadere in una certa trivializzazione di certi processi, ma a occhio è probabilmente questo il modo meno imperfetto per prendere lo spettatore per la nuca e costringerlo a guardare. Guardare come alla fine coloro che fanno la Storia, nel Bene e nel Male, altro non sono che persone; come Bush jr., che in pratica liquida il destino di un’intera area geografica in Medio Oriente affidandola a un amico del padre, Cheney appunto, mentre va rosicchiando un fuso di pollo.

C’è questa amara ironia, un humor tragico, verrebbe da dire sepolcrale, dietro alla cavalcata verso l’affermazione di un singolo da cui passa nell’immediato il futuro di una regione, dunque di centinaia di migliaia di persone, mentre alla lunga qualcosa di apparentemente meno significativo, di sicuro meno importante ma che ha comunque delle ricadute terribili, ossia la percezione di un popolo, un Paese che, leader del mondo, un giorno si troverà inevitabilmente nella scomoda posizione di doversi confrontare con i propri fantasmi, in altre parole, con ciò che ha fatto.

Vice non è quel lavoro che vuole approfondire oltremodo l’entità di certi discorsi, ammesso che fosse alla sua portata, ma che preferisce nondimeno suggerire, con quella cautela certo inevitabile per un prodotto mainstream del suo tipo, senza però rinunciare a qualche frecciata, laddove non addirittura vere e proprie stoccate; accantonando l’indagine, che dà quasi per scontata, a tutto vantaggio della ricostruzione a posteriori, a cronaca acquisita per così dire, che spiega anche il velo di spiritosaggine applicato sopra, filtro aggiuntivo che giustifica l’intervento su questa parabola. Perché la verità, specie nel contesto odierno, va detta scherzando, anche a costo di farsi dare dei superficiali. Eppure il film di McKay non è una barzelletta, e finanche l’aula su cui aleggia quella cappa di fumo, la stessa in cui Cheney per la prima volta viene a contatto con la Politica che conta, ebbene, questo ritratto, questa panoramica, è un po’ un modo per alleggerire, non per sdrammatizzare, quanto di lì alle prossime due ore assisteremo. È tutto a tal punto terrificante che non vale la pena prenderlo così tristemente sul serio. Forse.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]

Vice – L’uomo nell’ombra (Vice, USA, 2018) di Adam McKay. Con Christian Bale, Amy Adams, Steve Carell, Sam Rockwell, Tyler Perry, Alison Pill, Lily Rabe, Eddie Marsan, Justin Kirk, Bill Pullman, Jillian Armenante, Brandon Sklenar, Mark Bramhall, Brandon Firla e Shea Whigham. Nelle nostre sale da giovedì 3 gennaio 2019.