Home Recensioni Benvenuti a Marwen, recensione: c’è sempre di mezzo una rossa

Benvenuti a Marwen, recensione: c’è sempre di mezzo una rossa

Come pervenire, attraverso la finzione, a quella verità che la realtà, sola, non può darti. Nel suo ultimo film-saggio, l’ennesimo, Robert Zemeckis si sofferma anzitutto su questo

pubblicato 22 Dicembre 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 14:02

Succedono un sacco di cose strane a Marwen, cose assurde. Lo dice Mark, Mark Hogancamp (Steve Carell), allorché il suo interlocutore appare stranito dalle dinamiche di questo strambo mondo in miniatura, ambientato nella Seconda Guerra Mondiale. Un mondo che esiste per lo più nella testa di Mark, il cui riscontro nella realtà sta in qualche edificio in miniatura costruito accanto al giardino di casa, popolato da delle bambole. È un tentativo di rielaborare quanto accadutogli non molto tempo prima, un pestaggio da cui ne è uscito vivo per miracolo, a seguito del quale tuttavia ha perso la memoria rispetto a parecchi aspetti della sua vita precedente. Perché sì, c’è un prima e un dopo, anche se Mark ci mette un po’ per capirlo a pieno.

Benvenuti a Marwen è il resoconto di questo processo, dell’acquisizione di questa consapevolezza; un passaggio sofferto, che evoca tante questioni attraverso suggestioni e rimandi. Robert Zemeckis, in tal senso, costruisce ancora una volta un testo stratificato, dalle molteplici letture. Non semplicemente un’opera di finzione bensì un film-saggio, che solo a fronte di una lettura istantanea, oserei dire «di pancia», può uscirne ingenerosamente ridimensionato. Mark all’inizio ha due scogli da superare, ossia presentarsi in tribunale il giorno del verdetto e recarsi a New York per l’inaugurazione della sua Mostra; in altre parole, uscire. L’intera parabola si sostanzia in questo percorso che, da dentro, lo deve condurre fuori.

Superficialmente si tratta dell’ennesimo attardarsi sul cosiddetto «potere dell’Arte» (sic), ossia il creare, l’esprimersi artistico quale momento terapico, insomma, parte della cura di un dato male, per lo più psicologico. In tal senso, diciamolo subito, il lavoro di Zemeckis non ha granché da aggiungere: Benvenuti a Marwen, così recepito, è la storia di un uomo che, attraverso il ricorso alla fantasia, sconfigge i propri demoni, unici veri nemici. Senonché questo non è che il primo strato, quello più ovvio, l’apparenza “accettabile” attraverso cui questo testo, ben più articolato, si mostra allo spettatore, facendo appunto leva su un tenore familiare, persino troppo, pur di tenerlo lì, quanto più incollato possibile.

Ancora una volta, si tratta solo di un escamotage, un espediente di cui Zemeckis si serve per raccontare dell’altro, per metterci a parte di verità che, spiattellateci sul grugno diversamente, ci sarebbero rimaste precluse. E come sempre, lo fa mediante il ricorso alla tecnica; la mano dell’autore è nei dettagli, in quegli elementi che abbiamo quasi sempre sotto gli occhi ma dei quali, pur consapevoli della loro presenza, non riusciamo subito a soppesare l’entità. Benvenuti a Marwen non è tanto un film politico, quanto la risposta a quanto c’è di politico nella Hollywood di oggi, con riferimento alla sua produzione chiaramente. Qui il contraccolpo autoriale finisce col fare la differenza, proprio perché sappiamo che in un film di Zemeckis le implicazioni non si esauriscono alla superficie; i suoi essendo testi che vanno sfogliati, approfonditi.

Quando infatti sceglie di parlare di una storia del genere, c’è da chiedersi se già lì non vi sia qualcosa che dobbiamo cogliere. Mark viene infatti pestato quasi a morte perché, sbronzo, dice ai suoi picchiatori che non gli dispiace indossare scarpe da donna. Apriti cielo: i tizi, dei pessimi ceffi, tutt’altro che raccomandabili, e non solo per via della svastica che uno di questi portava tatuata sul braccio, lo seguono fuori dal locale e lo gonfiano di botte con una violenza inaudita. Tornato a casa, Mark non ricorda nemmeno di avere quella gran collezione di bellissime scarpe da donna, ma Zemeckis ci gioca, girandoci intorno, per esempio mettendoci nei panni di Mark, il quale a poco a poco ricorda che quella fatidica sera in cui stava quasi per lasciarci le penne indossava in realtà delle normalissime scarpe da tennis.

Perché dirigere la nostra attenzione su questo particolare? Zemeckis è un regista come pochi, uno di quelli che ha sempre messo in discussione proprio quel verbo, dirigere, il cui significato è quanto mai instabile rispetto al suo cinema: chi viene diretto? Gli attori? Oppure noi spettatori? Certo è che nulla o quasi può essere casuale, ed il significato di un dato passaggio non può sistematicamente esaurirsi in ciò che se ne ricava nell’immediato. Mark ha una predilezione per le scarpe femminili, zeppe, tacchi e via discorrendo; la sua Marwen vede opposte due fazioni: da una parte un gruppo di donne, disposte ad intervenire tutte le volte che la controparte di Mark in quel mondo rischia di essere fatto fuori dall’altra fazione, un gruppo di soldati nazisti.

In questa lotta infinita si consuma il dramma del film, nonché la vera “malattia” di Mark; in questa semplice dinamica, ossia dei tedeschi che, senza alcun vero motivo, vogliono uccidere l’alter-ego di Mark, il quale, di volta in volta, viene salvato da queste bambole che rappresentano a loro volta delle persone che esistono realmente nella vita di Mark. Eccetto una, Deja, accento francofono, viso pallido, porcellanato persino più delle altre bambole, con quel suo taglio a caschetto verde che campeggia sopra un viso di primo acchito angelico, con lei che fluttua e sembra finanche avere poteri magici. Ed infatti assume i connotati di un angelo: fino pressoché alla fine non si capisce chi sia questa Deja, men che meno chi o cosa rappresenti. Si sa solo che lei è lì, a metterci sempre lo zampino, il suo un amore perverso, un’ossessione per Mark, che vorrebbe esclusivamente per sé; non come le altre donne, che lo accettano pur non potendolo avere, si preoccupano di lui senza chiedere nulla in cambio.

Pur non potendo andare oltre nella descrizione, è certo che sia questo il fulcro di Benvenuti a Marwen; lì, nelle pieghe di questi brevi racconti immaginari, tutti più o meno uguali, che di volta in volta Mark mette su, senza averne concretamente controllo, c’è la verità a cui si vuole approdare. Tutto o quasi sta nel capire chi sia Deja, come collocarla, seguirne le mosse, mentre si fa esperienza di quell’incubo a occhi aperti in cui Mark cade costantemente. Pochi film sono infatti in grado di farci vivere l’orrore di una realtà come quella di chi affronta un disturbo da stress post-traumatico, in maniera così piena e intensa. La nuda realtà, in tal senso, poco o nulla può dirci: serve l’alternarsi tra le due dimensioni, non solo quella del reale, bensì anche quella puramente mentale. D’altronde non è manco una vera e propria alternanza, dato che i due mondi si mescolano nella testa di Mark, divenendo un’unica, inquietante cosa.

È lì che il dispositivo messo in moto da Zemeckis fa click, in questa integrale restituzione di una condizione che rimanda ad un malessere ben più profondo e radicato, che va oltre il mero superamento di un singolo episodio di violenza. E il bello è che si ha tutta l’impressione che non vi sia altro modo di conseguire tale obiettivo, se non attraverso un processo di scomposizione e la successiva, sapiente ricostruzione di una realtà che non è la nostra bensì quella interna al film. «Accadono cose strane, cose senza senso», dice Mark, eppure è proprio attraverso ciò che non si capisce che ci è dato di capire ogni cosa. Infilandoci anche qualcosa della propria parabola, quella personale di un regista che a questo punto sente di doversi mettere in discussione, con quei riferimenti tutt’altro che ludici, secondari perciò, a opere come Ritorno al futuro e Chi ha incastrato Roger Rabbit, che nell’economia del racconto hanno anzi un peso significativo.

In cosa consiste infatti la ricerca di Mark? O per meglio dire, come si sostanzia? Da cosa passa? Passa ancora una volta, come nell’88, dal mistero di una rossa senza la quale il caso non può essere risolto. Stavolta non si chiama Jessica ma Nicol (Leslie Mann), senza la “e” finale ci si tiene a precisare, che è un po’ la chiave di volta, la prova da superare per capire davvero come stanno le cose. Attorno a lei vengono infatti disseminate prove più o meno evidenti, la sua figura contrapposta a quella di Deja, che inevitabilmente ritorna, deve ritornare. La morbosità posticcia, artificiale, rassicurante ma opprimente di quest’ultima, spezzata dalla dolcezza che è anche durezza di Nicol; in altre parole il trionfo della realtà sulla fantasia, l’esatto opposto di ciò che sembrerebbe raccontare Benvenuti a Marwen. Che è un film sui limiti della fantasia, non tanto sui suoi pregi, le sue virtù, senza al tempo stesso tacere su quanto risulti essenziale al fine di poter far propria quella verità che la sola realtà, come si è già detto e si continuerà a dire fino alla nausea, scevra da tutto non è in grado di consegnarci, certamente non integralmente.

Film su scala, tornando alla tecnica, che gioca dunque sulle dimensioni, il macro di ciò che è reale opposto al micro del mondo immaginario in cui le bambole prendono vita; perciò inquadrature che sembrano ingrandimenti, e lo si capisce in particolare quando guardiamo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica di Mark. La necessità di farsi piccoli per guardare da un’altra prospettiva, contrariamente a chi, non senza ragione, sostiene la necessità di dover osservare in panoramica un dato fenomeno; non sempre, non in questo caso, non per niente l’economia di spazi e ambienti, visto che l’azione praticamente si svolge in una sola location, declinata in più modi, anche in funzione della chiusura di Mark, non solo letterale (il suo centellinare le uscite da casa) ma che indica peraltro quella condizione alla quale si accenna sopra.

Zemeckis esteriorizza con un’efficacia ed un’abilità affabulatoria rare quello che a conti fatti è un percorso del tutto interiore, una risalita che tocca temi oltremodo attuali, oltre a quelli di sempre, di conseguenza universali (da cui l’appunto circa l’essere una risposta a certo impegno diffuso a più livelli in parecchie produzioni hollywoodiane). Un discorso lucido, ancorché elaborato, su tematiche complesse proprio perché estremamente attuali, dall’identità sessuale al femminismo, passando per l’atavica paura del nemico, che altri non è se non l’eterno malvagio contro cui ciclicamente scagliarsi, quasi fosse un’esigenza fisiologica. Rispetto a questa dicotomia tra minaccia esterna ed interna, da quest’ultimo lavoro di Zemeckis si apprendono forse le cose più sensate che si ha modo di sentire da un po’ di tempo a questa parte; il suo approccio affatto apologetico, sofisticato ma accessibile, colloca Benvenuti a Marwen su un livello che compete davvero a pochi. Sapessero essere altrettanto eloquenti, sinceri, dunque credibili, altri, quando esclamano la verità, ossia che «le donne salveranno il mondo». E pazienza se a questo punto, per riuscirci, debba essere una bambola a dirlo.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]

Benvenuti a Marwen (Welcome to Marwen, USA, 2018) Robert Zemeckis. Con Steve Carell, Leslie Mann, Diane Kruger, Eiza González, Gwendoline Christie, Janelle Monáe, Merritt Wever, Neil Jackson, Siobhan Williams e Matt O’Leary. Nelle nsotre sale da giovedì 10 gennaio 2019.